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Alzheimer, per la Giornata Mondiale il punto con Rossini su Repubblica.it e Radio Vaticana

19 Settembre 2019
Assistenza

In occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer che si celebra il 21 settembre il professor Paolo Maria Rossini, ordinario di Neurologia all’Università Cattolica e direttore dell’Area Clinica di Neuroscienze del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, fa il punto sulla patologia in un’intervista a Repubblica.it e Radio Vaticana.

Come tutte le ricorrenze, la giornata mondiale dell’Alzheimer – istituita nel 1994 dall’Organizzazione mondiale della sanità in data 21 settembre – è l’occasione per tirare le somme. Non solo sulle fredde statistiche che ogni anno vedono aumentare i malati di demenze. Ma anche sulle conseguenze economiche, assistenziali e sociali del fenomeno. L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa, che distrugge cioè le cellule del cervello. È di gran lunga la più diffusa delle demenze: un termine spesso usato a sproposito che descrive il progressivo peggioramento di un insieme di sintomi – memoria, orientamento nel tempo e nello spazio, linguaggio, tono dell’umore e comportamento – che riducono irrimediabilmente l’autonomia del malato, fino alla morte. A causa dell’invecchiamento della popolazione, nei prossimi trent’anni i malati di Alzheimer nel mondo cresceranno dagli attuali 50 a 130 milioni. In Europa, si stima che 10,5 milioni di persone vivano con demenza e si prevede che questo numero aumenterà a 18,7 milioni nel 2050. In Italia l’8% degli anziani ultrasessantacinquenni e fino al 20% degli ultra ottantenni sono affetti da demenza. I casi nel nostro Paese sono oltre 1,2 milioni, dei quali circa 600 mila affetti da Alzheimer.

Alla ricerca delle cause

Nonostante i progressi della ricerca, non esiste ancora una cura per l’Alzheimer, la cui progressione può essere solamente frenata. “La malattia lavora nel buio per anni prima della manifestazione dei primi sintomi. Tuttavia, il cervello possiede una discreta riserva neurale in grado di aggiustare o sostituire i circuiti danneggiati: l’Alzheimer si manifesta una volta esaurita questo salvavita” spiega il neurologo Paolo Maria Rossini del Policlinico Gemelli di Roma. Trovare una cura è difficile poiché l’Alzheimer è una malattia complessa, scatenata probabilmente da un insieme di fattori e non da un’unica causa. “Sappiamo che alcune proteine alterate – per esempio la beta-amiloide e la tau – sono coinvolte nel processo degenerativo, ma non possiamo essere certi che siano la vera e unica causa all’origine della malattia o piuttosto una sua conseguenza” spiega Rossini. A queste difficoltà se ne aggiungono altre: “per essere considerato efficace, un farmaco dovrebbe essere assunto per un periodo non inferiore ai 3-5 anni partendo da una fase prodromica, cioè quando la malattia non si è ancora manifestata, e deve dimostrare di migliorare lo stato di salute del paziente o di rallentare la progressione. Per ottenere risultati servono tempo e biomarcatori di malattia affidabili” prosegue il neurologo. Per accelerare l’identificazione della malattia, spesso confusa con l’inevitabile declino cognitivo dell’anziano, ministero della salute e agenzia del farmaco stanno conducendo “Interceptor”, un ambizioso progetto che punta a individuare i marcatori biologici più appropriati della malattia. Entro il 2022, un rigoroso insieme di parametri fisiologici potrebbe affiancare i tradizionali test neuropsicologici compilati con carta e penna.

Diagnosi e assistenza

Perfezionare le metodiche di diagnosi precoce è fondamentale anche per distinguere correttamente l’Alzheimer dalle altre forme di demenza e sottoporre i malati ai trattamenti più adeguati quando i sintomi sono ancora lievi. L’Alzheimer ha infatti una progressione lenta: il calvario del paziente può trascinarsi per oltre dieci anni con conseguenze psicologiche e costi devastanti per i familiari e gli amici che lo assistono. Nel 2014 il governo ha approvato il piano nazionale demenze, che fornisce indicazioni strategiche per il miglioramento degli interventi nel settore, non soltanto con riferimento agli aspetti terapeutici specialistici, ma anche al sostegno del malato e dei familiari lungo tutto il percorso di cura. “Peccato che, non essendo finanziato, sia rimasto lettera morta. Per quanto la situazione nelle diverse Regioni sia a macchia di leopardo, il carico dell’assistenza del malato ricade ancora, e in buona parte, sulle famiglie” ricorda Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, che stima in 37,6 miliardi il costo totale della malattia.

Secondo le stime dell’European Brain Council (Ebc), coalizione che raduna le principali organizzazioni europee focalizzate nello studio dei disturbi neurologici, il costo totale delle malattie del cervello in Europa ammonta a 798 miliardi di euro per anno. “Un trattamento che ritardi la progressione della malattia del 50% comporterebbe una diminuzione dei malati negli stadi avanzati, con conseguente miglioramento del livello di vita per molti malati, sia quantitativamente che qualitativamente” sostiene Monica Di Luca, professoressa di farmacologia all’Università di Milano e presidente dell’Ebc. Secondo la coalizione, un trattamento nelle prime fasi potrebbe dimezzare il costo annuale dell’assistenza per la patologia da 22.000 a 12.406 euro.

La prima linea di difesa dalla malattia rimane la prevenzione, attraverso l’adozione di abitudini che possano incrementare la nostra riserva neurale. Uno stile di vita sano e attivo può rallentare significativamente la degenerazione. «Soprattutto per chi ha casi in famiglia, è fondamentale curare l’alimentazione e tenere sotto controllo pressione, tiroide, glicemia e colesterolo. Un regolare esercizio cognitivo, combinato a quello fisico, può contribuire a contrastare la progressione, mentre sedentarietà, alcol, sostanze stupefacenti, sedentarietà e fumo sono deleteri» conclude Rossini.

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