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Terapie anti-COVID-19: ecco le più promettenti al momento

30 Marzo 2020
Pillole Anti COVID19

Quali sono al momento le migliori strategie di trattamento contro l’infezione da COVID-19? Nonostante le mille fake news che circolano in rete e via social sull’argomento, in tutta onestà nessuno può dare una risposta definitiva a questa domanda. Per un motivo molto semplice: mancano evidenze scientifiche. Nella migliore delle ipotesi, gli studi finora pubblicati riguardano infatti solo qualche decina di persone; troppo poco per rivestire di significatività statistica i risultati. E, tanto per fare chiarezza, al momento le autorità regolatorie internazionali (FDA ed EMA) non hanno ancora approvato alcuna terapia specifica per il trattamento dei pazienti con infezione da COVID-19. I farmaci attualmente al vaglio degli studi clinici sono cioè, con rare eccezioni, terapie già esistenti, utilizzate ‘off label’ contro l’infezione dal COVID-19.

Detto ciò, naturalmente si va avanti e anche ospedali sottoposti ad uno straordinario stress assistenziale, come il Gemelli, stanno conducendo sperimentazioni cliniche sulle nuove terapie, per non procedere ‘al buio’.

Fin da subito, i cinesi hanno identificato, nel corso della grave epidemia che li ha colpiti dall’inizio di gennaio, una serie di molecole, che sono state testate inizialmente in vitro e successivamente sui pazienti. Sulla base di queste esperienze preliminari, sono stati progettati numerosi trial clinici, alcuni dei quali già pubblicati e dunque consultabili.

Abbiamo fatto il punto della situazione sulle terapie anti-COVID-19, insieme ad un grande esperto internazionale, il professor Roberto Cauda, Direttore Area Microbiologia e Malattie infettive del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di Malattie Infettive presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

Clorochina e idrossiclorochina. “Nell’ambito del trattamento – commenta il professor Cauda - possiamo identificare una serie di farmaci che contrastano la replicazione del virus in maniera aspecifica. Tra questi, mi fa piacere ricordare che siamo stati i primi a individuare l’azione anti-virale della clorochina. Nel lontano 2003 infatti, insieme ai colleghi Andrea Savarino e Antonio Cassone, in uno studio congiunto tra l’Istituto Superiore di Sanità e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ipotizzammo che il coronavirus della SARS – che per l’80% è simile al nuovo coronavirus – poteva essere inibito bloccando la replicazione del virus dalla clorochina; inoltre la clorochina poteva svolgere un’attività immunomodulante. Nonostante il lavoro fosse stato pubblicato su Lancet infectious disease (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1473309903008065?via%3Dihub), è rimasto nel dimenticatoio  per molti anni. Ma i colleghi cinesi lo hanno ripreso e, sulla base dell’efficacia della clorochina sulla replicazione in vitro del virus, hanno istituito una serie di trial clinici la cui conclusione è stata positiva.  Per questo motivo, la clorochina è stata inserita inizialmente nelle linee guida cinesi di trattamento del SARS CoV-2, poi in tutte le linee guida del mondo, comprese quelle redatte dalla SIMIT (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali) Lombardia.

Di recente, il gruppo francese di Didier Raoult (https://www.mediterranee-infection.com/wp-content/uploads/2020/03/Hydroxychloroquine_final_DOI_IJAA.pdf) ha dimostrato, su un numero esiguo di soggetti (una ventina), che l’associazione clorochina-azitromicina può facilitare l’eliminazione del virus.

E’ necessario però sottolineare che non ha senso andare in farmacia per comprare clorochina e azitromicina per autosomministrarsele; ricordiamo che le linee guida indicano i pazienti ai pazienti ai quali può essere somministrata e rigorosamente sotto controllo medico perché possono dare effetti collaterali anche importanti.

Remdesivir. Si tratta di un farmaco, nato come terapia per l’Ebola, somministrato per via endovenosa e dotato di ampia attività anti-virale; inibisce la replicazione virale interrompendo in maniera prematura la trascrizione dell’RNA. E’ dotato di attività in vitro contro il SARS CoV-2 (il virus responsabile dell’infezione da COVID-19) e di attività contro altri beta-coronavirus, in vivo. L’Italia partecipa ai 2 studi di fase 3 promossi da Gilead Sciences per valutare efficacia e sicurezza del farmaco negli adulti ricoverati con diagnosi di COVID-19.

“Si tratta di un altro farmaco – commenta il professor Cauda - che può avere un’interessante azione anti-virale; anche in questo caso questo farmaco non nasce come terapia anti-SARS CoV-2, ma come trattamento anti-Ebola. Il farmaco non è ancora in commercio ed ha anch’esso un’azione anti-virale, consistente nella inibizione della replicazione del virus. Anche in questo caso i risultati sono troppo scarsi per poter dire una parola definitiva; si tratta tuttavia di un altro farmaco di grande interesse sul quale la comunità scientifica deve porre la sua attenzione”.

Ritonavir/lopinavir. “Nell’ambito dei farmaci anti-retrovirali – prosegue il professor Cauda -  è stata anche rispolverata l’associazione ritonavir/lopinavir, farmaco vecchio di una ventina di anni e superato da altri nel trattamento dell’infezione da HIV. Studi di docking molecolare, avevano visto che, contrariamente agli altri inibitori delle proteasi, questo farmaco aveva una maggiore capacità di adattarsi al sito combinatorio con il virus SARS Cov-2 e questo aveva fatto nascere interesse e portato ad avviare sperimentazioni cliniche.”

Una doccia gelata è venuta però dalla recente pubblicazione sul New England Journal of Medicine (https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2001282?query=featured_home) di uno studio cinese che ha confrontato pazienti in trattamento con ritonavir/lopinavir, con altri sottoposti alla terapia standard di supporto, senza trovare alcuna differenza tra i due gruppi; il farmaco insomma non apporterebbe alcun beneficio. “Non credo si possa ancora dire che questo farmaco sia del tutto inefficace – afferma il professor Cauda -  ma da ricercatore di base, posso dire che, al di là degli studi di docking, c’è un grosso problema, rappresentato dal fatto che la proteasi del virus SARS CoV-2 non è un’aspartil proteasi, che è il bersaglio di questo farmaco nei pazienti con HIV. Quindi è per questo verosimile che sui pazienti COVID-19 il suo meccanismo d’azione sia o molto modesto o assolutamente inefficace”.

Favipiravir e umifenovir. Di recente l’attenzione degli studiosi (e del pubblico dei social), si è appuntata su due nuovi farmaci anti-influenzali, uno giapponese (il favipiravir della Fujifilm Toyama Chemical), l’altro usato in Russia e in Cina (l’umifenovir della company russa Pharmstandard). “L’AIFA – ricorda il professor Cauda - ha di recente autorizzato un trial clinico sul favipiravir.  Anche in questo caso è giusto sottolineare che il favipiravir può presentare effetti indesiderati, dei quali è bene tener conto nella prescrizione”.

Per quanto riguarda l’umifenovir l’AIF non ha per ora autorizzato alcun trial clinico. Il farmaco, utilizzato in Cina durante l’epidemia da COVID-19 su alcuni pazienti, in associazione ad altri trattamenti, dispone infatti di pochi dati, peraltro di scarsa qualità. “Al momento attuale – fa sapere l’AIFA - non sono disponibili evidenze scientifiche sufficienti a supportare l’efficacia di umifenovir nel trattamento della malattia COVID-19, o nella prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, né tantomeno il suo utilizzo in sostituzione di altri trattamenti che in Italia sono stati messi a disposizione per i pazienti affetti da COVID-19”. L’agenzia regolatoria ricorda anche che, in relazione alle “offerte web per farmaci non autorizzati o falsificati, si segnala che l’acquisto di medicinali con prescrizione attraverso internet non è consentito dalla normativa italiana, ma è soprattutto estremamente pericoloso per la salute”. Insomma il fai da te, sulla scia di qualche ‘consiglio’ dei social, oltre a non essere utile, può essere estremamente pericoloso.

Tocilizumab. Un anticorpo monoclonale, bloccante il recettore dell’interleuchina-6 (è prodotto da Roche), finora utilizzato con indicazioni reumatologiche, è stato inserito in un protocollo di trattamento anti-COVID dai ricercatori dell’Istituto Pascale di Napoli. “Nel contesto del COVID-19 – ricorda il professor Cauda -  viene utilizzato per ridurre il ‘fuoco amico’ che, in una fase dell’infezione può essere dannoso soprattutto nei pazienti con polmonite interstiziale, l’elemento più grave del quadro clinico di COVID-19”.

47D11. “L’unico farmaco specifico per bloccare il SARS CoV-2 – ricorda il professor Cauda - è un anticorpo monoclonale di recente presentato dall’Università di Utrecht. Questo farmaco bloccherebbe il sito combinatorio del virus (la proteina ‘S’ del virus che si lega al recettore ACE2, espresso sulle cellule polmonari). Ma per ammissione stessa dei ricercatori, i tempi della commercializzazione probabilmente non saranno brevissimi”. Uno studio ancora in ‘pre-print’, realizzato da Chunyan Wang e colleghi del gruppo di ricerca coordinato da Berend-JanBosch (Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Utrecht) ha dimostrato che il 47D11 (questa la sigla con la quale viene indicato questo anticorpo monoclonale) è in grado di legare sia il SARS CoV-2 che il SARS-CoV e di inibire in maniera importante l’infezione virale su una linea cellulare di cellule Vero. Non è tuttavia ancora chiaro come faccia il 47D11 a neutralizzare il virus; in maniera sorprendente, sembra escluso che lo faccia impedendo alla proteina S di legarsi all’ACE2. Un’ipotesi è che possa determinare l’inattivazione delle antennine (gli spike, appunto) del virus, andandone a destabilizzare la struttura. (https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2020.03.11.987958v1)

Anche nella ricerca, l’unione fa la forza. Il megatrial dell’OMS e quello europeo

“Una malattia che ha causato una pandemia – riflette il professor Cauda - a mio giudizio richiede una risposta unitaria da parte della scienza. Da questo punto di vista vedo con particolare interesse i trial che anche noi stiamo costruendo a livello nazionale, per avere una multicentrica, una casistica di pazienti più ampia, così da rendere i risultati dello studio più forti. Ma a livello internazionale, voglio ricordare sia il trial SOLIDARITY, lanciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sia lo studio europeo coordinato dai francesi che si propone di arruolare qualche migliaio di pazienti, nella logica giustissima che l’unione fa la forza. L’Italia al momento non ha ancora aderito. Ma tutti noi ci dovremmo interrogare sull’importanza di mettere insieme tutti i nostri dati, tralasciando la legittima competizione tra i gruppi, perché la situazione è tale da richiedere la partecipazione vera da parte di tutti noi”.

La settimana scorsa, Tedros Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che il trial SOLIDARITY rappresenta la giusta risposta al pericolo che la frammentazione delle ricerche sulle terapie anti-COVID-19 in tanti piccoli trial, ognuno con un disegno diverso, non riesca a dare quelle risposte tanto attese, per poter offrire ai pazienti dei trattamenti realmente salva-vita.

Lo studio SOLIDARITY multicentrico, internazionale, analizzerà 4 diverse opzioni di trattamento: il remdesiv (Gilead), un farmaco nato come anti-Ebola; l’associazione lopinavir/ritonavir (antivirali in passato utilizzati contro l’infezione da HIV/AIDS); lopinavir/ritonavir in combinazione con l’interferon-beta (un modulatore del sistema immunitario); la clorochina (un anti-malarico, utilizzato in Cina su pazienti COVID). Ognuno di questi trattamenti verrà confrontato con la cosiddetta ‘terapia standard di supporto’  (ossigeno e supporto ventilatorio, ove necessario). Al momento le nazioni che hanno aderito a questo studio internazionale sono: Argentina, Bahrain, Canada, Francia, Iran, Norvegia, Sud Africa, Spagna, Svizzera e Tailandia.

Nel frattempo, gli ospedali europei sono stati invitati a prendere parte allo studio DISCOVERY lanciato dall’INSERM francese e coordinato da Florence Ader (Università di Lione). Il disegno del trial prevede l’arruolamento di 3.200 pazienti da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Spagna, Svezia e Gran Bretagna. Saranno studiati gli stessi farmaci e combinazioni dello studio SOLIDARITY. Lo studio sarà randomizzato ma ‘in aperto’ e testerà le stesse quattro strategie terapeutiche sperimentali indicate come ‘top priority’ dall’ OMS (remdesivir, lopinavir/ritonavir da soli o in associazione a beta-interferon, idrossiclorochina). Il punto di forza del DISCOVERY è la sua natura ‘adattativa’; nel caso in cui il trattamento effettuato si riveli inefficace, può essere rapidamente abbandonato e sostituito da un altro per offrire il miglior trattamento ai pazienti.

Maria Rita Montebelli

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