Ogni nascita è una gioia che si rinnova: così la nostra famiglia cresce al Gemelli
Antonio Morelli, giornalista, nella testimonianza che segue parla per una volta di sé e della propria famiglia, raccontando con garbo e partecipazione una storia felice, di vita che prende corpo al Gemelli, ormai per tradizione generazionale.
Medici e personale preparati, ostetriche gentili e competenti, personale infermieristico sempre pronto ad intervenire e a calmare le ansie delle puerpere. E soprattutto nel reparto si respira un’aria di “sì alla vita”. Ecco perché abbiamo scelto di partorire al Gemelli. Più mia moglie che io, visto che poi in sala parto andava lei, mentre ero solo un supporter. Facendo io il tifo e lei spingendo sono nati 9 figli. Tutti al Gemelli. E con lo stesso entusiasmo abbiamo consigliato l’ospedale cattolico alla nostra prima figlia, Giusy, che si è sposata a 21 anni con Giovanni ed oggi hanno 4 figli, 3 femminucce e un nipotone, tanto è grande. E poi a mio figlio, Saverio, 27 anni, sposato da un anno e mezzo con Alessandra, che, in questi giorni, hanno avuto il primo figlio. In totale 14 nati, tra figli e nipoti. E spero che anche gli altri figli, ancora non in età da matrimonio, seguano l’identica strada.
La nostra avventura è cominciata nel 1986. A giugno di quell’anno ci siamo sposati e dopo qualche mese cercavamo già un bravo ginecologo che potesse aiutarci a capire qualcosa sulla gravidanza e su cosa significasse aspettare un bambino. Ritornando oggi a passeggiare nervosamente nel tunnel che collega l’ingresso del 4° piano al reparto di Ginecologia - l'ansia è la stessa anche se non è più mia moglie a entrare nella sala parto - mi vengono in mente tante piccole storie. Come la prima volta che, immortalati in una foto, uscivamo con quel fagottino spauriti e pieni di ansia. Chiedendoci: “E adesso, che facciamo”?
Quell’esserino indifeso e bellissimo ci era stato affidato dal Buon Dio e noi non sapevamo come proteggerlo, innanzitutto dal tempo inclemente. Ricordo che pioveva tantissimo. Nonostante la giornata uggiosa uscivamo dal tunnel infreddoliti, ma con l’animo pieno di gioia. Un figlio – pensavamo – ti cambia la vita. Ed è vero. Da allora, tutto è cambiato. O quella volta in cui mia moglie – eravamo già al quinto parto – mi dice: “Se il personale sanitario lo consente e se vuoi, durante il travaglio e poi il parto, puoi entrare anche tu così condividiamo questo evento”.
Mi sono fatto coraggio, e per precauzione ho portato con me una bottiglia di Maalox per evitare bruciori di stomaco. Una cosa senza senso, lo so, ma la paura di sbattere per terra svenuto e senza che nessuno potesse badare a me era tanta. Ce l’ho fatta. Anzi l’ostetrica con uno sguardo dolcissimo, gentilissima, mi ha incoraggiato – forse avrà pensato che fosse l’antiacido a tenermi sveglio - e mi ha chiesto se volevo vedere il piccolo Francesco che stava venendo alla luce. L’ho visto nascere dopo un’ultima contrazione, lo hanno preso, mentre il volto di mia moglie, sudato e ancora sofferente, si rasserenava, lo hanno avvolto in una coperta e, con ancora qualche goccia di sangue addosso, lo hanno messo tra le mie braccia. Confesso che insieme a mia moglie abbiamo pianto tantissimo, quasi quasi non riuscivamo a fermarci. La gioia di avere un figlio era immensa. Un regalo grandissimo di Dio. Il personale all'unisono ci diceva: “Ma è il quinto, ancora siete emozionati? Per dire la verità anche al nono non ci siamo fatti mancare una lacrimuccia. Così come avviene con i nipoti, ma adesso siamo più scaltri e ci notano di meno.
Dopo quell’esperienza, sono sempre entrato in sala parto. Ho potuto notare la dedizione, la cura e l’amore verso la vita da parte di tutto il personale. E con mia figlia che ha avuto gravidanze difficili le attenzioni aumentavano.
Dal 1987 al 2003 (questi gli anni in cui sono nati i nostri figli) ho potuto ammirare la forza di mia moglie. La stessa ammirazione che ho letto negli occhi di Giovanni e di Saverio che avevano visto partorire le loro consorti. Una forza che Dio dà – credo – a tutte le donne che portano dentro il dono della vita. Un segno di immortalità visibile, che noi maschi non conosciamo e che possiamo solo ammirare. Uno dei nostri figli, qualche settimana fa, ci ha chiesto: “Papà, mamma facciamo finta di tornare indietro di quasi trent’anni: avreste voluto lo stesso una famiglia numerosa”? Ci siamo guardati – perché la domanda era piuttosto seria – e, insieme, abbiamo detto un grosso “Sì”. Anzi – è stata la nostra risposta - se non avessimo conosciuto Dio in un cammino di fede, non sarebbe stato possibile. È un’esperienza fantastica che il Signore non riserva a gente speciale ma a povere persone come noi”.
E oggi posso dire con ancora più convinzione: “E tutti – di nuovo - li avremmo fatti nascere al Gemelli di Roma”.