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Malattie cardiovascolari: ecco dove sta andando la ricerca nei prossimi 5-10 anni. Le anticipazioni del professor Filippo Crea.

5 Ottobre 2022
Istituzionali

L’Università Cattolica del Sacro Cuore ha ospitato, alla vigilia della Giornata Mondiale del Cuore, il primo convegno annuale della Rete cardiologica IRCCS, dedicato a ‘Next & Digital Heart’. La lettura magistrale del convegno sulle direzioni future della ricerca cardiovascolare è stata affidata al professor Filippo Crea, Ordinario di Cardiologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore della UOC di Cardiologia di Fondazione Policlinico Agostino Gemelli IRCCS che, come editor in chief di European Heart Journal (EHJ), una delle riviste scientifiche di cardiologia più prestigiose del mondo, è in una posizione privilegiata per osservare le future traiettorie della ricerca.

Quali sono i principali filoni di ricerca in ambito cardiovascolare nel prossimo futuro? Il professor Filippo Crea, uno dei massimi esperti internazionali sull’argomento, non ha dubbi: nei prossimi anni la ‘medicina stratificata’ si affermerà e andrà a complementare quella personalizzata, arriveranno nuovi farmaci basati sull’RNA, l’intelligenza artificiale sarà sempre più pervasiva, ma anche più trasparente e aiuterà a predire non solo ‘chi’ è a rischio di infarto o di aritmie, ma anche ‘quando’ questo accadrà, grazie ai nuovi score (calcolatori) di rischio che includeranno big data e ‘omiche’. E inoltre bisognerà mantenere uno sguardo attento e una mente aperta sui nuovi fattori di rischio ambientali.

“Le aree di ricerca con maggior potenziale di sviluppo in ambito cardiologico, come recentemente affermato in un editoriale pubblicato con gli executive editor di EHJ – ricorda il professor Crea – sono per le scienze di popolazione, gli studi basati sul genoma e sui fattori di rischio ambientali, per le scienze cliniche la medicina personalizzata/stratificata, l’intelligenza artificiale per migliorare la precisione diagnostica e prognostica, le terapie basate su acidi nucleici e le metanalisi basate sui dati dei singoli pazienti; per la scienza traslazionale infine, l’individuazione di nuovi target terapeutici”.

Molto importante è allargare l’orizzonte della prevenzione primaria, andando ad individuare nuovi fattori di rischio, che si aggiungono a quelli tradizionali (ipercolesterolemia, ipertensione, fumo, diabete) e che non si possono modificare a livello individuale, ma che vanno riconosciuti, in quanto impattanti sulla salute. L’attenzione di molti studi si sta concentrando ultimamente sull’inquinamento, che non è solo quello atmosferico, ma anche quello acustico e luminoso. “L’attività fisica riduce il rischio cardiovascolare – commenta il professor Crea – ma non se la facciamo in un ambiente inquinato; in questo caso, più si fa attività fisica, più aumenta il rischio. Anche l’eccesso di luce ‘inquina’. Uno studio fatto ad Hong Kong dimostra che l’intensità di luminosità notturna si associa ad un aumentato rischio cardiovascolare. E per quanto riguarda l’inquinamento acustico, uno studio svizzero ha dimostrato che chi vive vicino ad un aeroporto ha un rischio aumentato di eventi cardiovascolari notturni rispetto a chi vive più lontano; il rischio di infarto o ictus, matura nelle due ore successive al risveglio notturno e le donne sono più sensibili, in particolare per quanto riguarda il rischio aritmico. Un nostro studio pubblicato qualche giorno fa su JACC infine, dimostra che lo spasmo coronarico (sia microvascolare, che epicardico), un’alterazione quindi puramente funzionale, è più probabile nei pazienti esposti ad inquinamento atmosferico. E non solo. I pazienti con sindrome coronarica acuta esposti ad inquinamento atmosferico maggiore vanno incontro a rottura di placca, anziché ad erosione. Quindi l’inquinamento agisce anche sui meccanismi biologici fondamentali di malattia”.

Un altro settore che andrà sempre più sviluppato è quello degli score di rischio genetici. Lo studio INTERHEART ha dimostrato che il 90% degli infarti è spiegabile da fattori di rischio tradizionali (fumo, ipertensione, ecc), ma non è in grado di dire se un infarto ad esempio si manifesterà a 40 o a 90 anni, e questo fa la differenza. “È solo lo studio della suscettibilità ai fattori di rischio – commenta il professor Crea – che può darci un’idea più precisa di quando si verificherà un evento cardiovascolare”. E la possibilità di predire gli eventi aumenta includendo anche i genetic risk score, come ha di recente dimostrato la professoressa Jessica Mega su Lancet. La predisposizione genetica inoltre investe anche la risposta alla terapia. “I benefici maggiori con le statine – ricorda il professor Crea – si hanno infatti nei pazienti con rischio genetico più alto. Insomma, genetica e ambiente interagiscono e ci danno informazioni che possono essere di guida alla terapia; i geni ‘caricano la pistola’ e i fattori di rischio fanno esplodere il colpo”. A tal riguardo in un interessante editoriale di commento allo ‘SCORE2’ (l’algoritmo per il calcolo del rischio cardiovascolare, adottato dalle ultime linee guida europee sulla prevenzione), Lale Tokgozoglu e Christian Torp-Pedersen scrivono che lo SCORE2 è il massimo che possiamo ottenere in termini di predittività di un evento dalle carte di rischio, ma che siamo ancora lontani dalla possibilità di ottenere una stratificazione personalizzata. “Per arrivare a questo – commenta il professor Crea – sarà necessario combinare le ‘omiche’ con l’intelligenza artificiale (IA). Solo aggiungendo ai fattori di rischio tradizionali, dati sulla proteomica, sui big data, sull’imaging avanzato, sulle nuove tecnologie indossabili, l’IA può portarci a predire con grande accuratezza il rischio di incorrere in un evento cardiovascolare.

Man mano che la complessità aumenta, è necessario dunque chiamare in causa l’Intelligenza Artificiale. Una recente review pubblicata su EHJ da van Smeden, uno dei maggiori esperti europei in intelligenza artificiale applicata al cardiovascolare, fornisce una specie di ‘breviario’ su come interpretare gli studi sull’IA valutando la concettualizzazione, la raccolta dei dati, i fattori predittivi, la trasparenza e naturalmente la validazione. “Se è infatti vero che tutti dovremo fare i conti in futuro con l’IA – afferma il professor Crea – è anche vero che dobbiamo imparare a distinguere quello che è veramente innovativo ed utile, da quello che è solo statistica e matematica, senza rilevanza clinica”. Ma con l’IA si possono fare grandi cose. “Uno studio cinese, pubblicato su EHJ – ricorda il professor Crea – dimostra che dall’analisi del volto si può risalire alla presenza di stenosi coronariche, attraverso un algoritmo di valutazione della faccia, risultato superiore come capacità predittiva ai tradizionali score clinici di rischio (come quello di Diamond e Forrester). Uno studio molto elegante del gruppo di Friedman (Mayo Clinic) dimostra come la lettura mediante IA di un ECG predice la presenza di disfunzione ventricolare con grande precisione, anche nei pazienti con funzione ventricolare ancora del tutto normale all’ecocardiogramma. E un altro lavoro della Mayo Clinic dimostra l’IA può individuare i pazienti affetti da fibrillazione atriale parossistica, analizzando il loro ECG in ritmo sinusale. Insomma è uno scenario nuovo e affascinante, da usare però con discrezione e senza trascurare il ruolo fondamentale dell’intelligenza ‘umana’ “.

Nel campo delle nuove terapie non c’è dubbio che il futuro è degli acidi nucleici. E una sintesi felice di quanto bolle in pentola sull’argomento è stata fatta da Landmesser con un editoriale del 2020 pubblicato su EHJ. Ma alcune terapie innovative sono già in parte realtà. “Nel caso dell’ipercolesterolemia ad esempio – ricorda il professor Crea – un esempio viene dall’inclisiran, un ‘silent RNA’ (siRNA) che inibisce la sintesi di PCSK9; una singola somministrazione di inclisiran riduce del 50% i livelli di colesterolo LDL per 6 mesi. E i risultati eccezionali non si limitano ai valori di laboratorio. L’analisi integrata dei trial del programma Orion dimostra che l’inclisiran, somministrato in aggiunta alla terapia convenzionale (statine), riduce l’incidenza di eventi cardiovascolari”. Un altro studio molto innovativo è quello del gruppo di Thomas Thum sul CDR132L, un inibitore di un micro-RNA (miR-132). “Questo miR– spiega Crea – fa tutte cose ‘sbagliate’ (promuove l’ipertrofia ventricolare, ha un effetto negativo sulla contrattilità, peggiora l’autofagia) e il CDR132L, un oligonucleotide antisenso, suo antagonista, nel modello animale sperimentale ha dato dei risultati molto interessanti in termini di miglioramento della funzione ventricolare; si tratta di una terapia che si somministra ogni 2-4 settimane e che offre una prospettiva veramente nuova. Lo stesso gruppo ha effettuato uno studio clinico di fase 2b sempre utilizzando questo approccio che quest’anno, al congresso della Società Europea di Cardiologia, gli è valso il premio ‘Desmond Julian’ come ‘best paper’ pubblicato nel 2021 su EHJ. Sono dati molto preliminari ma che suggeriscono come questo approccio potrebbe migliorare la prognosi dell’insufficienza cardiaca”.

Medicina ‘personalizzata’ o ‘stratificata’ nelle malattie cardiovascolari? Un esempio di medicina personalizzata viene da uno studio che dimostra che uno score di rischio per pazienti che presentano una specifica mutazione (p.Arg14del) del gene che codifica per il fosfolamban, abbia un potere predittivo incredibilmente elevato sul rischio di aritmie ventricolari. “Ma questo livello di precisione ‘personalizzata’– commenta il professor Crea – si può applicare solo ad alcune malattie. Quando parliamo di cardiopatia ischemica, bisogna infatti adottare il concetto di medicina ‘stratificata’. È una linea di ricerca che mi sta molto a cuore perché da almeno 20 anni con i miei collaboratori abbiamo sviluppato il concetto che la cardiopatia ischemica, al di là del fenotipo, ha degli endotipi, fortemente differenziati. In un lavoro scritto in passato con il professor Paolo Camici abbiamo spiegato che la cardiopatia ischemica non è solo stenosi coronarica. Certo, le stenosi coronariche sono importanti, ma possono esserci tanti altri meccanismi di malattia, come le alterazioni funzionali del circolo coronarico, sia a livello dei vasi epicardici, che del microcircolo. C’è poi un altro ampio capitolo della cardiopatia ischemica spesso trascurato, ma molto importante, che è quello del ‘cuore ipersensibile’. Alcuni pazienti hanno una sensibilità viscerale molto spiccata e questo provoca dolori toracici, anche molto fastidiosi, che impattano fortemente sulla qualità di vita, perché gli stimoli algogeni sono fortemente amplificati e ingranditi nell’elaborazione corticale. E quindi poiché il fenotipo ‘cardiopatia ischemica cronica’ ha numerosi endotipi e meccanismi di ‘malattia’, per affrontarli dobbiamo utilizzare una medicina ‘stratificata’, in cui ogni terapia è mirata a contrastare uno specifico meccanismo di malattia. Se il problema alla base è uno spasmo epicardico o microvascolare dovremo dunque somministrare calcio-antagonisti; se invece sono presenti stenosi coronariche o una ridotta riserva coronarica da alterazione del microcircolo, dovremo somministrare farmaci che riducono il consumo di ossigeno; se infine il problema è quello di un cuore ‘ipersensibile’, dovremo dare farmaci che interferiscono sulla trasmissione degli stimoli dolorosi. Questo è un esempio di medicina ‘stratificata’ che sta finalmente entrando nelle linee guida”. E anche per le sindromi coronariche acute, vale lo stesso concetto. “L’infarto è ‘solo’ un fenotipo – prosegue il professor Crea – ma noi ancora curiamo l’infarto sulla base dell’ECG: se è STEMI (con elevazione del tratto ST) seguiamo un certo percorso, se è nSTEMI (senza elevazione del tratto ST) ne seguiamo un altro. E questo da decenni. Ma siamo sicuri che questa sia la migliore via? È necessario approfondire i meccanismi che portano all’infarto. Una review che abbiamo pubblicato su Circulation qualche anno fa insieme al professor Peter Libby, ricorda che quello che noi chiamiamo ‘fenotipo infarto’ può riconoscere quattro cause completamente diverse: una fissurazione di placca, con o senza infiammazione sistemica, un’erosione di placca, una sindrome coronarica acuta senza trombosi, dovuta ad un’alterazioni funzionali. Eppure, ancora oggi, di fronte ad un infarto noi trattiamo tutti allo stesso modo: farmaci antitrombotici e angioplastica/stent, senza andare a contratsare quella che è l’alterazione primaria. Nella cardiopatia ischemica insomma non arriveremo mai alla medicina di precisione. Ma la medicina stratificata è comunque molto importante per guidare le corrette scelte terapeutiche”.

Maria Rita Montebelli

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