Giornata Mondiale della Malattia di Parkinson: una promessa chiamata alfa-sinucleina

Domenica 11 aprile si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale del Parkinson, un importante momento di awareness per i pazienti e i loro familiari. I numeri della patologia sono in crescita, ma sul fronte della terapia, come su quello della diagnosi precoce, ci sono ottime notizie. Abbiamo fatto il punto della situazione con uno dei massimi esperti internazionali sull’argomento, il professor Paolo Calabresi, Direttore della UOC di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Neurologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
“La malattia di Parkinson, le cui caratteristiche fondamentali (lentezza dei movimenti, rigidità e tremore) sono state descritte oltre duecento anni fa dal medico inglese James Parkinson, tra le patologie neurodegenerative – spiega il professor Calabresi - è seconda solo a quella di Alzheimer in termini di prevalenza. In Italia questa condizione riguarda circa 500-600.000 persone, secondo stime dedotte dalla vendita dei farmaci. Oggi riusciamo a diagnosticare prima questa malattia e questo è fondamentale perché, pur non avendo al momento farmaci in grado di bloccare la progressione della malattia (Disease-Modifying Drugs), questi potrebbero rendersi disponibili nel prossimo futuro. E anche la terapia sintomatica, gestita da neurologi esperti, può avere un impatto importante sulla qualità di vita dei pazienti”.
La grande promessa dell’alfa-sinucleina. Tra i farmaci disease-modifying , i più promettenti sono quelli che hanno come bersaglio le forme mutate della proteina alfa-sinucleina che, diffondendo nel cervello, alterano le funzioni dei neuroni e li fanno degenerare. “Gli effetti indotti dall’alfa-sinucleina mutata sul sistema nervoso centrale sono molto precoci – spiega Calabresi - e compaiono ben prima della degenerazione neuronale. Questa proteina anomala va ad alterare il ‘dialogo’ tra i diversi neuroni, interferendo sulle ‘parole’ utilizzate dalle cellule del cervello, i neurotrasmettitori. Il nostro gruppo di ricerca sta cercando di capire in che modo l’alfa-sinucleina possa interferire in questo dialogo tra i neuroni, prima ancora che avvenga la loro distruzione. È questa la nuova frontiera della ricerca, sia sul fronte della diagnosi precoce, che delle terapie, in particolare dell’immunoterapia. Sono attualmente in corso studi clinici su anticorpi monoclonali (immunoterapia passiva) – spiega il professor Calabresi - in grado di bloccare la diffusione dell’alfa-sinucleina”. Ma si punta anche alla realizzazione di veri e propri ‘vaccini’ contro il Parkinson (immunizzazione attiva) che hanno lo scopo di ‘insegnare’ al sistema immunitario a riconoscere questa proteina ‘sbagliata’, per distruggerla prima che faccia danno. “L’alfa-sinucleina mutata – spiega il Neurologo - è in grado di diffondere da un punto all’altro del cervello; è importante dunque bloccarne subito la diffusione a livello dei gangli della base, le strutture cerebrali cardine nel controllo del movimento. In fase avanzata di malattia inoltre è importante impedirne la diffusione alla corteccia cerebrale, perché questo provoca disturbi cognitivi, che si vanno ad aggiungere a quelli motori”. L’alfa-sinucleina modificata è al centro anche delle sperimentazioni per la ricerca di biomarcatori di fase precoce del Parkinson e può essere individuata sia nel liquor che nel sangue. “In futuro – anticipa il professor Calabresi - la ricerca di questo nuovo biomarcatore ci consentirà di diagnosticare la malattia in fase precoce e di intervenire con anticorpi monoclonali o con un vaccino anti-Parkinson. E’ l’auspicio di una medicina di precisione che possa contare nel caso del Parkinson non solo su farmaci sintomatici, ma anche su farmaci in grado di modificare, bloccare o ritardare la progressione di malattia. L’alfa-sinucleina è dunque la ‘proteina della speranza’ ed è dove la ricerca sulla malattia di Parkinson sta investendo maggiormente. Si tratta di un argomento molto caro alla nostra ricerca; dopo il lavoro pubblicato su Lancet Neurology, a breve ne pubblicheremo un altro anche sulla rivista Brain”.
La terapia della fase precoce, oggi. Per il trattamento del Parkinson si dispone già di efficaci terapie sintomatiche che devono essere utilizzate però da neurologi esperti. “La levodopa, il farmaco cardine per la terapia del Parkinson (ha valso il premio Nobel per la medicina nel 2000 allo svedese Arvid Carlsson), è in uso già da 20-30 anni – afferma Calabresi - ma oggi abbiamo imparato a utilizzarla meglio. Questo farmaco va utilizzato con competenza perché dopo 5-7 anni di impiego, finisce la cosiddetta ‘luna di miele’ con la levodopa e compaiono le complicanze della levodopa, cioè le discinesie (movimenti involontari che possono provocare cadute ed altri effetti indesiderati). E’ necessario dunque riconoscere prontamente questa fase, detta delle ‘fluttuazioni motorie’, quando la copertura del farmaco scende da 5-6 ore, a 2-3 ore. Per mantenere l’efficacia della terapia si può ricorrere ad un aumento del dosaggio o alla somministrazione di più dosi, frazionate nel tempo”.
Ma a fare la differenza non sono solo i farmaci. “Come in altre patologie del sistema nervoso centrale – spiega il professor Calabresi - contano molto sia l’attività fisica, che quella cognitiva. Studi molto recenti hanno evidenziato che, soprattutto nelle fasi precoci della malattia, l’attività fisica, intesa come camminata a passo veloce o ballo, e le attività artistiche (alla New York University c’è un centro di arte-terapia che insegna ai pazienti con Parkinson a esprimersi anche attraverso la musica, il canto, il ballo e la pittura) sono molto importanti. Possono sembrare attività ludiche o di supporto; al contrario è stato dimostrato che migliorano in modo notevole la qualità di vita dei pazienti. Come nella malattia di Alzheimer c’è una riserva cognitiva da coltivare con l’impegno culturale, la lettura, le interazioni sociali, così nella malattia di Parkinson ci sono riserve motorie e cognitive che vanno coltivate anche con attività che permettano al paziente di avere una vita di relazione. L’attività motoria e l’arte-terapia sembrano avere addirittura un effetto trofico sulle cellule dopaminergiche residue, facilitano cioè la produzione di dopamina nel cervello e rallentano l’evoluzione della malattia in fase iniziale”.
Man mano che la malattia di Parkinson progredisce, la dopamina scompare completamente dal cervello. Questo neurotrasmettitore è implicato non solo nel movimento, ma anche nelle risposte affettive e nella regolazione del tono dell’umore. La sua scomparsa provoca i disturbi del movimento e, in seguito, anche la depressione e le alterazioni dell’emotività, tipiche delle persone con Parkinson.
Importanti novità di trattamento riguardano anche la fase avanzata, quando la L-dopa non può più essere somministrata per le fluttuazioni motorie e le discinesie importanti. “Se il paziente è ancora giovane e integro dal punto di vista cognitivo e psichiatrico, si può considerare una terapia chirurgica stereotassica, che effettuiamo al Gemelli insieme ai Neurochirurghi: la Deep Brain Stimulation”. Con un’accurata selezione del target chirurgico, in genere il sottotalamo, si posiziona a questo livello un elettrodo collegato ad uno stimolatore esterno, che invia una stimolazione elettrica ad alta frequenza, in grado di inattivare in modo funzionale e reversibile questo nucleo. Questo intervento può modificare in modo importante le discinesie da levo-dopa e in alcuni pazienti permette addirittura di interrompere il trattamento con levo-dopa perché la DBS è in grado di restituire un’autonomia motoria ai pazienti. Fondamentale è la selezione accurata dei pazienti e il loro follow up dopo l’intervento. Per i pazienti che non possono giovarsi della DBS, si può ricorrere alla somministrazione continua tramite PEG della Duodopa®, un gel intestinale a base di levodopa che stabilizza la concentrazione di dopamina (il neurotrasmettitore carente nel Parkinson)nel cervello.
Gli scenari futuri di trattamento. La dopamina è anche un possibile target della terapia genica. “L’idea – spiega il professor Calabresi – è quella di iniettare nel cervello, con metodiche stereotassiche, dei vettori virali contenenti il gene della dopamina o quelli che codificano per fattori trofici come il GDNF, per stimolare i neuroni dopaminergici residui”. C’è poi il capitolo delle terapie cellulari sia rescue (per salvare i neuroni e rallentare la progressione di malattia), che di restoration (per rimpiazzare i neuroni degenerati). “Si stanno facendo molti investimenti sulle cellule staminali derivate da cute o da fibroblasti – afferma il professor Calabresi - tuttavia i risultati sono ancora preliminari. Siamo lontani molti anni dall’applicazione clinica”.
Maria Rita Montebelli
