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“Combattere il virus: Roma e Bergamo si raccontano, testimonianze e strategie”

3 Novembre 2020
Eventi

In un webinar carico di emozioni le storie di medici del Policlinico Gemelli e  dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo nel ‘cuore della pandemia’. Vita, morte, cura, prendersi cura.

Un grande abbraccio liberatorio ha unito l’altra sera in modo virtuale i medici dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, con quelli del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, grazie al webinar “Combattere il virus: Roma e Bergamo si raccontano, testimonianze e strategie”. Un momento di grande intimità durante il quale grandi medici non sono riusciti a trattenere le lacrime, travolti da un fiume di emozioni e di ricordi, che solo la loro grande professionalità riesce a tenere a bada nel quotidiano, permettendo loro di funzionare con la lucidità e la competenza di sempre. Ma la prova alla quale medici e personale sanitario sono stati chiamati la scorsa primavera ha lasciato un segno indelebile, reso ancora più doloroso dai durissimi mesi che si stagliano minacciosi davanti. Veder morire tante persone e, tra loro, anche parenti, amici, colleghi di lavoro, può far vacillare anche un professionista di provata esperienza. Che prima di tutto è un uomo. Solo di fronte al vuoto, come il ‘Viandante sul mare di nebbia’ di Caspar David Friedriech. Fede, solidarietà e resilienza possono offrire un appiglio in mezzo alla tempesta; ma quando questa cede il passo ad un momento di tregua, il fiume delle emozioni diventa dirompente e travolge in un pianto catartico. Ecco dunque questo viaggio nel vissuto più intimo e profondo di questi medici, che qualcuno all’epoca chiamava eroi. E che oggi mette vigliaccamente all’indice come menagrami e untori, in un tentativo puerile e ignorante di esorcizzare il virus di Wuhan, confondendo la soluzione con il male.


Il webinar è stato ideato da Antonia Carla Testa, professore associato del Dipartimento di Scienze della vita e sanità pubblica dell’Università Cattolica e da Paolo Sergi, direttore ICT (Tecnologia dell'informazione e della Comunicazione) del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, entrambi originari di Bergamo. A condurre, una emozionata Alma Maria Grandin, caposervizio redazione online del TG1, anche lei bergamasca, che ha ricordato come, il 4 maggio, tornando finalmente a casa dai genitori, ad Albino, una cittadina della provincia di Bergamo, abbia avuto modo di leggere sul bollettino parrocchiale il ricordo delle 60 persone morte di COVID e la bellissima testimonianza del dottor Massimiliano De Vecchi del Centro di Emergenza Alta Specializzazione dell’Ospedale di Bergamo. Di qui l’idea di un omaggio agli operatori dell’emergenza-urgenza. Anche adesso, che si parla più di tamponi e meno di trincea.

Nella riflessione ‘Ho veduto morire la morte’ il dottor De Vecchi fa viaggiare i suoi ricordi sull’onda di una sinistra colonna sonora, fatta di campane che suonano a morte, del suono indisponente delle sirene delle ambulanze che annunciano altra sofferenza, del respiro affannoso del padre nei giorni che precedono la morte, degli allarmi dei monitor, degli alti flussi dell’ossigeno, dei lamenti dei pazienti. Un mondo surreale, dove la morfina diventa acqua santa e gli ingombranti DPI, dispositivi di protezione individuali, abiti di una strana cerimonia. Ed ecco i ricordi dolorosi come una ferita che non rimargina: la carovana di carri militari che porta i nostri cari defunti lontano. Corpi diventati solo cadaveri di cui disfarsi, anziché una salma da confortare con i riti della pietà. Senza nemmeno le preghiere degli amici da recitare intorno alla bara. “La morte si è portata via Gianni, il mio vicino, e la cara signora Giuditta qualche metro più in là e il telefono che squilla a Katia, che ha perso il padre per coronavirus”. Il virus ha stravolto la vita di questa comunità, portandosi via un’intera generazione di bergamaschi. Ha fatto diventare pericolosi i baci, gli abbracci, le chiacchiere in strada. La verità più profonda della nostra vita: la sua fine, la morte. “Una quaresima che ci ha obbligati ad un interminabile sabato santo. Il giorno del silenzio di Dio”.

“Questo testo – ricorda Massimiliano De Vecchi - è nato in una sera di lockdown. Ho deciso di raccontare non solo quello che vedevo in ospedale, ma anche quello che provavo nel cuore, il dolore degli operatori sanitari. Ho ancora dei flashback da disturbo post-traumatico da stress. Tutti noi viviamo momenti di insonnia, popolati di incubi, di immagini che irrompono improvvisamente nella memoria. L’epidemia ha rimosso ogni separazione tra chi cura e i pazienti; ci ha messo tutti nella stessa barca”.

“Sono molto grato a Massimiliano – afferma il professor Massimo Antonelli, direttore Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e Tossicologia clinica del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – per aver dato voce allo stato d’animo di tutti noi che abbiamo combattuto al fronte. E’ stato un impatto durissimo. E non è finita. Noi che non avevamo intorno tutto quello che Bergamo ha vissuto, non siamo stati compresi fino in fondo. Ma è stata un’esperienza durissima e inedita, con un impatto umano, professionale e emotivo senza pari. Ci sono delle immagini, degli spot che riaffiorano continuamente alla mia coscienza. Gli occhi. Abbiamo vissuto tra di noi guardandoci e riconoscendoci dagli occhi, cercati dagli occhi degli ammalati che chiedevano aiuto. Comprendere il mondo che c’era al di là di quegli occhi è stata un’esperienza fortissima. Ma l’abnegazione dei giovani, che non si sono mai tirati indietro in questi lunghi mesi, ci ha dato forza e ci ha fatto superare la fatica, le difficoltà, il terrore di essere contagiati. Ancora oggi non abbraccio mio figlio, per paura di contagiarlo. Ho dormito tre mesi in un’altra stanza per paura di contagiare mia moglie. E ora ci stiamo preparando ad affrontare un altro momento difficile”.

 “E’ la fine di un’altra giornata – gli fa eco il dottor Ferdinando Luca Lorini, direttore dell’Unità di Anestesia e rianimazione 2, Aziende Socio Sanitarie Territoriali di Bergamo - uguale a centinaia di altre che stiamo vivendo quest’anno. Ma ho imparato di più in questi mesi che in tutta la mia vita. Ne sono uscito con le ossa rotte ma più pieno come uomo, più ricco. Ho imparato cosa vuol dire davvero essere un medico”. Il dottor Lorini ha perso la madre per questo maledetto virus, ma ha continuato a lavorare perché c’era gente che aveva bisogno. “Ho pianto in silenzio – ammette Lorini - come fanno i bergamaschi. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato di affrontare una cosa così, che avevo letto solo nei libri di Camus. Credo che ne usciremo migliori. Ma quando tutto sarà finito, il nostro Paese dovrà rivedere alcuni valori, il senso della vita, le priorità. Quando sarà finita, noi dovremo fermarci e aiutare il Paese a riscrivere alcune cose”.

“Abbiamo vissuto un momento incredibile dal punto di vista professionale – afferma il dottor Roberto Cosentini, direttore del Centro di Emergenza Alta Specializzazione dell’Ospedale di Bergamo - affrontando una malattia che non conoscevamo, in uno scenario che avevamo letto solo nei libri. Un terremoto dura uno o due giorni al massimo, poi si tratta di soccorrere i feriti. Questa tragedia è durata mesi, con l’enorme sofferenza di questi malati, e tra loro conoscenti, familiari, amici, che arrivavano continuamente in Pronto Soccorso e di cui non vedevamo la fine. E’ stato il momento più difficile dal punto di vista professionale ed emozionale. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta. E questo ha cementato il gruppo del Pronto Soccorso, facendoci sentire che, anche di fronte alla morte, nessuno di noi era veramente solo. E ad un certo punto, nel mio cuore la disperazione ha ceduto il passo alla gratitudine. Quella di lavorare in un grande ospedale accanto ai miei colleghi, quella di aver studiato e di avere il privilegio di poter aiutare le persone.”

“Veder morire persone che stavamo benissimo fino a due giorni prima – ricorda il professor Francesco Franceschi, direttore Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS - ha un impatto emotivo enorme. Ricordo un paziente amico che abbiamo seguito inizialmente da casa e che poi abbiamo dovuto far portare con l’ambulanza in Pronto Soccorso, per ricoverarlo in subintensiva. Sia la moglie che i figli erano positivi. E l’unico suo pensiero era per la madre 90enne con la quale aveva perso i contatti. Mandiamo subito un’ambulanza che la trova in cattive condizioni, ma viva; non mangiava da due giorni. Riusciamo a ricoverarla nello stesso ospedale del figlio che, finalmente, può rivederla attraverso una videochiamata (durante l’emergenza abbiamo dotato di iPAD i pazienti per poterli metterli in contatto con i familiari). E’ una storia per fortuna a lieto fine, per tutti e due.  Sono orgoglioso di lavorare per la nostra istituzione e per i cittadini che ne hanno bisogno, aiutato da tanti medici e specializzandi, ai quali ho dovuto raddoppiare i turni di notte e i festivi, senza sentire mai una protesta.”

E c’è anche chi si è trovato a passare da un momento all’altro dal camice, al pigiama. E’ la storia del dottor Luigi Frigerio, direttore del Dipartimento Materno-infantile e pediatrico dell’Ospedale di Bergamo, che ha contratto il COVID, passando così di colpo dall’altra parte della barricata. “Nella notte tra il 17 e il 18 marzo – ricorda il ginecologo - camminavo arrancando in pronto soccorso. Ho provato tanta gratitudine quando un’infermiera mi ha messo l’ossigeno. Sono diventato paziente in un ospedale dove lavoro da vent’anni. E durante il ricovero, mi è venuto a trovare fra Pier Giacomo per darmi l’olio degli infermi. Il mio vicino di letto, Mauro, 36 anni, padre di due figli, è rimasto tanto impressionato della mia richiesta. Ma gli ho ricordato che quel segno non era per la morte, ma per guarire. E quindi anche lui ha chiesto di riceverlo. Il 19 marzo era il giorno del mio compleanno e del mio patrono. Vedevo la luce azzurra del cielo attraverso il casco dell’ossigeno. Sul muro della parete di fronte, un crocefisso muto. E intorno a me, un’orchestra di medici e infermieri che si prodigavano per curare gli ammalati, interpretando una sinfonia che non è mai stata scritta in nessun libro di medicina. Stavamo curando una malattia che non conoscevamo, direttamente sul campo. Ognuno faceva bene il suo mestiere ma c’era in più un’empatia, un’affabilità, un’amorevolezza rivolta agli ammalati che mi ha commosso. Vedevo lo sguardo attento di chi curava e il cuore di chi assisteva i nostri corpi spossati. La morte era lì che ci aspettava. Come ogni paziente, ne avvertivo i segnali, ma chiedevo di poter continuare ad esistere. Continuavo a guardare quel crocefisso muto sul muro. Perché in quei momenti, come dice don Abbondio nei Promessi Sposi, ‘il coraggio uno mica se lo dà da sé!’ Una fiducia, che chiamerei fede, mi è stata d’aiuto a non aver paura, anche nei giorni più complicati. Tornando a casa ho dovuto reimparare a camminare come gli astronauti che tornano dalla stratosfera. E ho sentito forte la gratitudine e la voglia di tornare a lavorare insieme ai colleghi.”

Questa pandemia non colpisce sono le vie respiratorie, ma segna profondamente anche la psiche.

“La solidarietà ci rende forti – riflette la dottoressa Daniela Pia Rosaria Chieffo, direttore Unità di Psicologia Clinica del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS - Senza solidarietà, libertà è una parola vuota. Durante la pandemia molti pazienti ci hanno confessato di essersi sentiti accuditi come figli dagli operatori. Perché l’empatia è un’emozione che circola forte nei reparti COVID. Ma tutti noi abbiamo bisogno di DPI, dispositivi di protezione individuali, emotivi e a fare spazio alle emozioni che ci aiutano a fronteggiare questo periodo. Stima, sincerità, empatia, responsabilità, smarrimento, forza, paura di non farcela, la cura. Parlare della propria fragilità significa anche sentirsi più forte. Ricordatevi di chiedere sempre aiuto!”

“Questo webinar – commenta il professor Giovanni Scambia, direttore scientifico della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS - ha messo insieme due realtà che hanno vissuto in maniera diversa il COVID, unite da una grande sintonia di intenti e dalla solidarietà. Bergamo era come casa nostra nei momenti più bui della pandemia. A Roma abbiamo vissuto il COVID in maniera drammatica, ogni giorno con l’unità di crisi, medici e infermieri, che hanno dato l’anima. Ma ci siamo impegnati anche a favorire tutte le attività di ricerca per capire cosa stava accadendo, facendone tesoro per migliorare l’assistenza. Abbiamo sofferto insieme ai pazienti che avevano problemi di salute gravi, diversi dal COVID, ma che dovevano comunque essere curati: gli oncologici, i cardiovascolari. Abbiamo cercato di regalare loro un’apparente normalità, facendoli sentiti accolti e assistiti”.

 “Anche la mia città, Piacenza, come Bergamo – ricorda il dottor Marco Elefanti, Direttore Generale della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, piacentino di origini - è stata colpita molto duramente dal COVID. Ricordo che mio fratello mi faceva sentire le ambulanze che scandivano lo scorrere del tempo. A Roma abbiamo vissuto l’epidemia in modo molto diverso, come livelli di aggressività. Ho vissuto intensamente questo periodo, in mezzo a medici solidi da un punto di vista clinico ed emotivo, anche se inevitabilmente scossi dalla situazione. Riunendoci tutti i giorni nell’unità di crisi, fine settimana compresi. Confrontandoci con una realtà che non avevamo mai vissuto, in mezzo a mille difficoltà: dai dispositivi che non arrivavano, alle proposte di acquisto a condizioni improponibili. Un’esperienza unica che mi ha provato.”

Maria Rita Montebelli

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