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Un prelievo e un elettroencefalogramma per predire chi si ammalerà di demenza

16 Luglio 2018
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Grazie a uno studio condotto a Roma presso la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – Università Cattolica, con il supporto tecnico dell’IRCCS S. Raffaele Pisana, potrebbe presto divenire possibile sapere chi si ammalerà di demenza (anche di Alzheimer) con un doppio test combinato – semplice e low cost – basato su un prelievo di sangue e un elettroencefalogramma (Eeg). Il test sarà rivolto a tutti coloro che presentano un lieve declino cognitivo (MCI è l’acronimo in inglese) e che proprio per questo hanno un rischio 20 volte più elevato di ammalarsi di demenza rispetto ai coetanei sani. Ma solo la metà di coloro che hanno una forma di declino cognitivo lieve svilupperanno effettivamente poi la malattia; a oggi non è dato prevedere chi si ammalerà e chi no in modo semplice, economico e non invasivo, ma servono esami onerosi come la Pet, la risonanza magnetica o la puntura lombare.

La ricerca che potrebbe rappresentare una svolta almeno per questo gruppo di soggetti a rischio  è oggi pubblicata sulla prestigiosa rivista Annals of Neurology ed è stata coordinata dal professor Paolo Maria Rossini, direttore dell’Area di Neuroscienze della Fondazione Policlinico A. Gemelli IRCCS e ordinario di Neurologia all’Università Cattolica, con la collaborazione del dottor Fabrizio Vecchio dell’IRCCS San Raffaele Pisana di Roma, del professor Camillo Marra, responsabile della Clinica della Memoria della Fondazione Gemelli,  della dottoressa Francesca Miraglia, bioingegnere presso il Policlinico A. Gemelli, del professor  Danilo Tiziano, della Genetica medica della Fondazione Gemelli, e del dottor Patrizio Pasqualetti, responsabile bio-statistico e direttore scientifico dell’Associazione Fatebenefratelli per la ricerca (AFaR).

  “Grazie a questo studio conoscere chi si ammalerà di demenza tra i soggetti a rischio sarà semplice e rapido perché basteranno un Eeg eseguito in modo routinario, ma analizzato con metodi estremamente sofisticati) e un prelievo”, spiega il professor Rossini (nella foto a sinistra). “A oggi manca nella pratica clinica un test siffatto, che potrà essere di grande iuto sia per le persone con declino cognitivo, sia per le loro famiglie, per iniziare il prima possibile i trattamenti medici e riabilitativi, per introdurre le necessarie modifiche nello stile di vita e per orientare per tempo scelte anche difficili che si è costretti ad affrontare in caso di diagnosi di demenza”.

Il test ha dimostrato un’accuratezza elevata (cioè non dà falsi positivi o false diagnosi) fino al 92%. Il prelievo di sangue serve a condurre un semplice test genetico alla ricerca di una mutazione legata al rischio di Alzheimer, sul gene ApoE. Mentre i segnali registrati con l’Eeg sono interpretati con un’analisi matematica (teoria dei grafi) che consente di capire come sono connesse tra loro le diverse aree del cervello.

Il declino cognitivo lieve risulta ai normali test neuropsicologici (che in genere vengono effettuati per modesti deficit di memoria o perché c’è una significativa familiarità di demenza) è caratterizzato da piccole défaillance misurabili, ma che non impattano nelle abilità di vita quotidiana, di relazione, affettiva, professionale del paziente. In Italia ci sono attualmente circa 735.000 persone con questo tipo di lieve declino cognitivo. Nel giro di 1-5 anni dalla diagnosi  1 soggetto con declino cognitivo su  2 svilupperà la demenza vera e propria.

Il test è stato sviluppato partendo proprio dall’idea di disporre di una metodica semplice, a basso costo, disponibile su tutto il territorio nazionale e non invasiva (come per esempio è la puntura lombare).

La sua accuratezza e sensibilità sono poi state valutate con una casistica di 145 pazienti con MCI in cui il test genetico e l’Eeg sono stati eseguiti all’inizio dello studio. Il campione è stato seguito per alcuni anni e 71 di loro hanno sviluppato una demenza, mentre 74 sono rimasti stabili.

Sapendo in anticipo grazie al test se la persona si ammalerà o meno, il paziente può essere inquadrato in un percorso terapeutico con farmaci già disponibili e più efficaci in questa fase pre-malattia, può essere inoltre spronato a modificare i propri stili di vita (dieta, sport, fumo, controllo della pressione, della glicemia, della funzione cardiaca, della funzione tiroidea in modo da ridurre il rischio di demenza e/o di ritardare nel tempo l’esordio dei sintomi e/o rallentare la loro progressione.

Inoltre, “quando arriveranno i farmaci innovativi destinati alle forme “prodromiche” di Alzheimer, dovremo avere lo strumento per intercettare per tempo quali sono i soggetti che certamente si ammaleranno”, considera il professor Rossini.

“Il test è utilizzabile da subito nella pratica clinica”, conclude il professor Rossini, “ma è previsto un suo ’collaudo’ all’interno di un progetto di ricerca comparativa denominato INTERCEPTOR, di recente finanziato da AIFA e Ministero della Salute. “Nel trial – aggiunge Rossini- il nostro e altri test saranno messi a confronto per valutare la loro accuratezza, i loro costi e la loro facilità di esecuzione all’interno di un modello organizzativo su scala nazionale”. Tale progetto è unico sullo scenario internazionale ed è già stato citato da ricercatori stranieri in numerosi congressi come un esempio di ricerca sanitaria di eccellenza. “Purtroppo  – conclude Rossini  stiamo assistendo a un rallentamento  dell’avvio del trial multicentrico (il Bando è già scaduto da oltre 2 mesi) ; l’auspicio di tutti i miei colleghi impegnati nella ricerca contro le demenze e l’Alzheimer è che  al più presto le nostre Autorità regolatorie colgano l’importanza dell’iniziativa scientifica  che porrà il nostro Paese all’avanguardia nel mondo nello studio  di questa grave, sempre è più diffusa e invalidante patologia neurologica”.

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