Storie di bisturi: il Gemelli nelle sale operatorie del mondo
Haiti potrebbe essere un angolo di Paradiso ma, uomini e calamità naturali, ne hanno fatto una terra martoriata. Da poco (ottobre 2016) è stata ancora alla ribalta per le devastazioni dell’uragano Mattew che, nella sua furiosa marcia di distruzione, ha travolto la popolazione, seminando disperazione e morte. Stesso copione nell’estate 2004 (uragano Jeanne) e nel gennaio 2010, quando, un tremendo terremoto, ha scosso la terra dell’isola caraibica e le anime di tutto il mondo.
Haiti è in gravi condizioni di sottosviluppo: circa l’80% della popolazione vive in povertà e il 54% dispone di meno di un dollaro al giorno. Haiti è in forte ritardo in quasi tutti gli indicatori di sviluppo; la mortalità infantile, che colpisce 74 bambini su 1000 nati vivi, è più che doppia rispetto alla Repubblica Dominicana, con cui Haiti divide il territorio della stessa isola, Hispaniola.
In questo scenario è ambientata un'esperienza eccezionale: di vita, di lavoro e di solidarietà. Marina Sammartino, anestesista del Gemelli, ha coordinato una squadra di specialisti, che ha lavorato nelle sale operatorie della Portaerei Cavour, alla fonda a largo di Port au Prince. La professoressa dell’Università Cattolica e del Gemelli, attualmente anche presidente della Società Italiana di Anestesia Neonatale e Pediatrica (SARNePI), ha anche organizzato una cordata interna di anestesisti, intensivisti, infermieri e specializzandi di anestesia che - negli anni - è intervenuta in alcuni dei posti più poveri e remoti di Asia, Africa e Sudamerica.
Il secondo scenario di questa doppia pagina del nostro taccuino di viaggio dei "bisturi" del Gemelli in giro per il mondo, è il nord dell’Etiopia: un altopiano ad oltre duemila metri sul livello del vicino Mar Rosso, ai confini - non facili - con l’Eritrea (Paese da dove scappano almeno 4 mila persone al mese). Un ospedale nato più di 40 anni fa dalla tenacia di due coniugi italiani (Franca e Carlo Travaglino) ospita cordate di chirurghi che, in vari periodi dell’anno, vanno ad operare i casi più impegnativi. Tra questi diversi medici del Gemelli: chirurghi pediatrici, come Carlo Manzoni, autore delle divertenti righe che seguono, ortopedici e chirurghi endocrini (questa è la terra dei giant goiter, tiroidi enormi responsabili di gravi sindromi compressive), molti dei quali coordinati da Laziochirurgia progetto solidale Onlus.
Il numero dei medici in Etiopia è decisamente inferiore a qualsiasi standard europeo, per non dire degli specialisti: la chirurgia pediatrica, è ancora considerata branca super specialistica, mancando cose più importanti come l’ortopedia o la ginecologia. La natalità è tripla rispetto all’Italia, con mortalità nei primi 5 anni di vita 20 volte superiore. Non esiste in tutto il Tigray (circa 42.000 Km quadrati, e 10 milioni di abitanti) uno specialista chirurgo pediatra. (rubrica a cura di Luca Revelli)
Haiti: un viaggio per un sorriso
di Marina Sammartino
A gennaio del 2010 ad Haiti il terremoto era stato violento: non riuscivamo a immaginare, all’arrivo, quale sarebbe stato il reale scenario. Il viaggio in aereo era stato abbastanza lungo da permettere a ognuno di noi di poter spaziare tra i quadri più diversi. La voglia di arrivare era tanta, come quella di renderci utili e aiutare chiunque ne avesse bisogno.
Finalmente siamo atterrati a Port au Prince, capitale del Paese caraibico, dove i militari del battaglione S. Marco - in tuta mimetica - ci attendevano con le loro camionette per continuare il nostro viaggio.
Avevamo saputo che la Portaerei “Cavour” della Marina Militare Italiana, era di base ad Haiti per portare aiuti umanitari. La “Cavour” è un gioiello della flotta nazionale, dotata di due sale operatorie, una sala gessi, una sala radiologica e una recovery room, trasformabile all’occorrenza in terapia intensiva, nonché di cabine per i pazienti e per i loro familiari. Quale momento migliore per sfruttare tutte queste potenzialità e ridare il sorriso a chi lo ha perso in questa grave calamità, o non l’ha mai avuto dalla nascita? E’ questo l’obiettivo dell’associazione umanitaria Operation Smile fin dal 1982: operare bambini con malformazioni facciali o esiti di ustioni dall’Africa all’America Latina, dalla Cina al Medio Oriente, alla Russia. Come anestesista avevo già esperienze di missione con l’International Red Cross e con il Ministero degli Esteri (in Pakistan, ai confini con l’Afghanistan e a Gaza, prima della Guerra del Golfo), poi, nel 2000, ho conosciuto Operation Smile: con la mia passione per l’Anestesia Pediatrica e la possibilità di cambiare davvero la vita a migliaia di bambini, mi ha conquistata! Non si può immaginare quale sia il terribile destino di un bambino con malformazioni facciali in un paese definito “in via di sviluppo”. Questi bambini non solo hanno problemi respiratori, di nutrizione e di linguaggio, ma sono derisi, nascosti dagli stessi genitori per vergogna. Non vanno a scuola e molti li credono streghe o figli del demonio, o vengono considerati l’incarnazione delle colpe dei genitori. Così eravamo partiti alla volta di questo Paese dilaniato dal terremoto: le camionette dei militari camminavano veloci attraverso strade sterrate o mal asfaltate, fiancheggiate da case crollate, ripiegate su se stesse. Questa continuità era rotta a tratti da tendopoli improvvisate con coperte, indumenti e stracci… e - incredibilmente - bambini che giocavano tra rifiuti e macerie. I bambini hanno mille risorse, sono unici, ignari e innocenti riescono a sorridere sempre! Ma, alcuni di loro, il sorriso lo avevano perso per i traumi subiti durante il terremoto, o non l’avevano mai avuto dalla nascita. E noi eravamo venuti proprio per loro, e li avremmo operati. Indossati i giubbotti salvagente, cuffie sulle orecchie e via sull’elicottero che ci avrebbe portato a bordo della nave, un’esperienza unica! E finalmente si comincia: scarico del cargo inviato da Norfolk con tutto il materiale necessario, set up delle sale operatorie, screening dei pazienti. Il giorno dopo inizia la chirurgia: nel team ci sono quattro chirurghi, tre anestesisti (la sottoscritta insieme con Rossella Garra e Michela Marzola), uno specializzando (Nicola Continolo), un intensivista (Luca Tortorolo), una infermiera pre e post-operatoria (Lucia Zaino), tutti del Gemelli.
E, poi, altre quattro infermiere, un medico-giornalista (Livia Azzariti) che si occupa anche delle cartelle cliniche, una logopedista, e una fotografa. Abbiamo operato ventisette pazienti tra cui labio e palatoschisi (più conosciuto come labbro leporino), un trauma mandibolare, una grossa cisti della guancia; tra le persone operate, anche una donna e una bimba con gravi ustioni e, poi, un bambino di sette anni, che non dimenticherò mai. Era stato notato dai militari per strada, aveva un malformazione auricolare bilaterale molto evidente, veniva deriso e sbeffeggiato e, come dopo abbiamo saputo, si vergognava di uscire e di andare a scuola, non poteva vivere la vita normale dei suoi coetanei. È bastata un’ora, e la bravura del chirurgo, per cambiargli la vita totalmente: dopo l’intervento nel suo indimenticabile sorriso che coinvolgeva i suoi occhi, si poteva leggere la sua felicità: la sua vita, pur in quella devastazione, era completamente cambiata! Sono immagini ed emozioni che ti restano nel cuore, ti riempiono l’anima, e ti danno la forza di affrontare la quotidianità e, alla fine, hai solo voglia di ripartire…
Nell’Etiopia che ci chiama “farangì” di Carlo Manzoni
Domenica pomeriggio (fine settembre 2015). Sto sul divano, solo in casa, reperibile per la Chirurgia Pediatrica. Suona il telefonino. Mi aspetto: “centralino del Policlinico Gemelli… è lei reperibile? ”. Invece è un mio collega del San Camillo con cui abbiamo amicizie in comune. Ora è in pensione e organizza “spedizioni” di Chirurgia Pediatrica in Etiopia, a Makallè all’Ospedale HEWO.
“Per la missione di novembre-dicembre mi occorre un chirurgo pediatrico, il collega inizialmente previsto ha un problema. Verresti tu?”. Telefono a mia moglie per avere il suo parere, mi contagia con il suo entusiasmo. Richiamo il mio collega che neppure sono passati dieci minuti, gli dico semplicemente: “Ok! Si parte”. Mi dirà dopo, in Etiopia, che la mia è stata la risposta più rapida in assoluto.
Domenica 22 novembre 2015. Aeroporto di Fiumicino. Non c’è il mio amico, capo missione, perché è già in Etiopia da due giorni a fare “ambulatorio” in due villaggi vicino a Makallè per “programmare la lista operatoria”. “Vicino” significa 20 km da coprire in 2 ore di jeep; i pazienti per raggiungere l’ospedale impiegano anche un giorno con il carretto con i muli. Il resto del gruppo è composto da tre infermiere e un anestesista perché il secondo viene da Bergamo e lo troveremo sull’aereo.
Lunedì 23 novembre. Arriviamo ad Addis Abeba e da lì volo per Makallé, capitale della regione del Tigré, nostra destinazione finale a circa 780 km. L’ospedale è fuori Makallè, ma collegato. E’ stato costruito da due medici italiani di Modena e adesso è gestito sia dai locali - tre medici in tutto - di cui uno direttore sanitario. Dentro l’Ospedale c’è anche un asilo, un orto e una piccola stalla con due mucche. Un locale religioso, naturalmente… multidisciplinare! Infine vi è la piccola costruzione che ospita lo staff - in genere 6 persone - e le due cuoche locali.
Martedì 24 novembre. Alle 7,30 del mattino siamo già davanti all’ambulatorio-sala operatoria, passando dinanzi all’ingresso dell’asilo dove uno sciame di bambini attende di entrare. Festanti, al nostro apparire scandiscono: “farangì-farangì” con l’accento sulla i; vuol dire uomo bianco e deriva dal fatto che il primo uomo bianco nella zona era stato un frate francese: da francesì a… farangì! La sala operatoria è ordinata e pulita, ricorda un ospedale del sud-Italia negli anni 60. Le mie giornate per i prossimi 10 giorni saranno ambulatorio, sala operatoria, ambulatorio, visita in reparto (in piccolo gli stanzoni dell’Umberto I del dopo guerra). La lingua è un inglese semplice, ma anche italiano: non per la breve occupazione dell’Etiopia, ma per le missioni italiane particolarmente frequenti e per la Tv (si vede RAI international).
Un pomeriggio finiamo prima e passeggiata nel villaggio. Popolazione giovane, clima disteso. Di nuovo i bambini ci chiamano “farangì-farangì” e insieme “caramella - caramella”: ne diamo qualcuna che abbiamo in tasca. Qualche mamma ci riconosce e ci invita per il caffé nella casetta di mattoni e fango e tetto di paglia pressata. Il caffé è un decotto di caffé tostato da poco. Ho uno stomaco forte e accetto volentieri, gli altri ringraziano, ma… il decotto lo evitano.
Venerdì 27 novembre. siamo già in sala operatoria quando il medico locale - anche un po’ pediatra - ci chiama per visitare un lattante di 6 mesi con una malformazione intestinale complessa. Ci consultiamo con il capo missione, si può effettuare l’intervento correttivo: ma gli anestesisti non se la sentono per la mancanza di alcune attrezzature idonee per l’età così piccola. Delusione. Ma ti rendi conto che sei in una equipe molto ristretta ed è necessario rispettare le competenze di ognuno. Compromesso. Promettiamo al medico-pediatra locale che per la prossima missione organizzeremo l’intervento. Con l’aiuto di un interprete inglese-italiano-tigrigno spieghiamo ai genitori che ci penseremo alla prossima missione. Risposta: non una lamentela, ma solo grazie, grazie, grazie. Sarà banale: ma la parola che mi hanno ripetuto di più è stata grazie, grazie, grazie. Nel nostro mondo occidentale non gira più tanto questa parola, che una parte della responsabilità non sia forse anche di noi medici?
Dall’1 al 4 dicembre. Bisogna finire gli interventi programmati, i più semplici che saranno affidati per il post operatorio al medico locale. Poi, organizzare le prossime missioni. Non hai il tempo per riflettere. Ci sarà sulla via del ritorno. L’ultima mattinata mi affaccio in “direzione sanitaria” per il certificato di presenza. Dieci minuti e la segretaria torna con il certificato, firmato e timbrato e chiede come mi sono trovato e se tornerò. L’ultima sera il cielo stellato mi sembra ancora più avvolgente e chiaro. Mi saluta sorridendo.