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Storie di bisturi: il Gemelli nelle sale operatorie del mondo

27 Febbraio 2017
Una lingua di terra tra due fiumi; la Mesopotamia. Il Tigri e l’Eufrate limitano la “culla della civiltà” che oggi è diventata un immenso scatolone di sabbia mista a distruzione, miseria, armi, e sangue. I due fiumi, dopo aver bagnato la “mezzaluna fertile” dell’Iraq, si uniscono a Bassora prima di sfociare nel Golfo Persico. Poco più a nord-ovest: Nassiria (Nasiriyah) tristemente nota per l’attacco kamikaze del novembre 2003 (25 vittime tra i carabinieri italiani dell’Operazione Antica Babilonia). E’ qui che volontari del Gemelli sono andati a lavorare. Francesca Vitale, anestesista, ha fatto addirittura quattro viaggi per rendere possibili, grazie a una sala operatoria mobile, interventi sulla popolazione locale e portare una testimonianza di pace e di solidarietà. (rubrica a cura di Luca Revelli)

 

Metti le ruote alla sala operatoria

di Francesca Vitale

La mia esperienza in Iraq comincia nel 2008, in coda alla seconda guerra del Golfo, quando i fumi lasciati dalle bombe si stavano dissolvendo e nell’aria si ricominciava a respirare l’idea di una nuova pace possibile.

Con l’associazione Smile Train Italia (l’attuale Emergenza Sorrisi) fummo invitati ad entrare a far parte dell’ambizioso progetto Provincial Reconstruction Team (PRT), avviato dal MAE (Ministero Affari Esteri) in collaborazione con gli Stati Uniti. Dei vari PRT disseminati nei territori di guerra sparsi nel mondo, a noi era toccato quello della provincia del Dhi Qar, la quarta più grande dell’Iraq, la più povera e la più a sud, zona delle Marshlands e su cui sorge la tristemente famosa Nasiriyah.

Non c’è l’ospedale nella base americana di Tallil, 30 km quadrati di superficie, protetta da 22 km di perimetro di sicurezza, entro il cui confine rientra Nasiriyah, ed alla periferia della quale sorge il PRT italiano difeso da centinaia di T-wall e dagli efficientissimi e fedelissimi Gurkha nepalesi. Il governo italiano ha risolto regalando al PRT una macchina meravigliosa: un camion con rimorchio che ospita una vera e propria sala operatoria, con due letti e due ventilatori, una zona lavaggio ed un’area per sterilizzare i ferri. Dopo un lungo e non facile viaggio su strada dall’Italia, a noi tocca far funzionare questo ospedale viaggiante. A bordo, riusciamo a garantire soprattutto interventi di chirurgia plastica facciale come esiti di ustioni, deflagrazioni, labbro leporino o malformazioni congenite.

Ma il fine non è solo operare e risolvere problemi immediati: dobbiamo soprattutto fare formazione per il personale medico e infermieristico locale. Una volta che avremo lasciato il paese, loro dovranno continuare efficacemente e indipendentemente l’opera iniziata. Il progetto PRT è la risposta a questa esigenza. Un’opportunità da cogliere al volo:?da qui la pianificazione di 22 missioni nell’arco di 5 anni, dal 2008 al 2011.

Io prendo parte a quattro di queste: la prima nel 2008 quando ancora la base di Tallil è nel pieno della sua attività militare, vi si trovano eserciti di tutto il mondo, e fuori (ma talvolta anche dentro) continuano a cadere le bombe, a fischiare i missili, ad alzarsi i fumi delle esplosioni. Dentro la base sembra di stare racchiusi in una bolla, ci crediamo protetti dalla tecnologia degli scudi antimissile, dai cuori impavidi e probabilmente ignari dei giovanissimi militari che (24 ore su 24) perlustravano il perimetro della base, e da qualche divinità consapevole che siamo là per ricostruire e non per distruggere. Ma il peso del casco e del giubbotto antiproiettile che siamo costretti ad indossare fuori dal camion rimorchio dell’ospedale, ci riportano alla realtà. Nel 2008, poco prima del nostro arrivo, le schegge di un missile avevano lambito gli alloggi dei volontari e dei lavoratori del PRT. La visita al cratere lasciato dalla bomba fa da benvenuto, tanto per farci capire che lì non si scherza, che la guerra è reale, anche se siamo abituati a vederla per televisione e crediamo che non faccia poi tanto male.

L’adrenalina ci rende più produttivi, lavoriamo tantissimo senza sentire la stanchezza e la sera qualcuno di noi ha addirittura il coraggio di voler fare due chiacchiere fino a tardi o di andare a giocare a biliardo nel padiglione degli americani sforzandosi di capire uno strettissimo slang d’oltreoceano. Vari gruppi si sono succeduti nelle 22 missioni, con alcuni irriducibili che sono tornati di continuo. Io ne ho fatte 4, la nostra logista e i 2 chirurghi tutte, il capo anestesista la metà, alternandosi, e poi uno stuolo di affiliati, ciascuno animato dalle proprie motivazioni.

Il fragore della guerra coi suoi morti, i suoi feriti ustionati o amputati, resi ciechi o sordi, molti giovani che arrivano alle nostre cure chiedendo speranza e spesso trovando solo umana consolazione, fanno dimenticare le nostre umane miserie, le ricollocano entro confini giusti ed equi, dando loro la dimensione dell’animo loro propria. Ridimensiona il nostro egoismo, almeno per la durata del nostro soggiorno in quel Paese e forse un po’ dopo il rientro in patria, prima che di nuovo l’habitus mentale dell’occidente “evoluto e indifferente” riprenda il sopravvento. “Restiamo umani” diceva un giovane cooperante aperto e lungimirante, prima di essere ucciso. E proprio questo significa restare umani, significa svestirsi dei propri abiti firmati, calarsi nei panni dei poveri del mondo e sentire la loro fame, il loro freddo, la loro paura, la loro riconoscenza verso Dio ad ogni pasto, ad ogni nuova alba, ad ogni figlio nato sano e sopravvissuto. Significa piangere per le vere miserie, significa commuoversi davanti ad un telegiornale cha manda in onda continuamente immagini di gente saltata per aria ad opera di altra mano umana, significa conservare l’orrore della guerra e della fame e significa avere rispetto della povertà.

Non so cosa resti oggi della base di Tallil, credo l’abbiano smantellata, già nel 2011 era quasi in disarmo. Sicuramente è rimasto il nostro camion, dono del MAE al ministero della salute iracheno, con i nostri colleghi medici e infermieri che in quegli anni si sono specializzati e diplomati con noi, sicuramente sono rimaste le piccole cicatrici sui volti dei bimbi operati e spero siano rimasti gli esiti buoni delle cure prestate. A me sono ri≠masti i ricordi di quei giorni - 60 in totale - gli amici, il cameratismo inevitabile in quella situazione estrema, le foto, tante foto, di cui posso dare solo un piccolo esempio per problemi di spazio, e soprattutto la convinzione che l’unica strada giusta e sostenibile sia rimanere umani. E non dimenticarlo mai.

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