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Alzheimer: i biomarcatori di resilienza (protezione), forse più importanti di quelli di malattia

20 Settembre 2024

La diagnosi precoce di malattia di Alzheimer è fondamentale per il successo delle nuove terapie (non ancora disponibili in Italia). Al momento però si conoscono solo alcuni biomarcatori per la diagnosi biologica dell’Alzheimer. Mancano quelli che consentono di prevedere la velocità di progressione della malattia e la risposta (o meno) alle nuove terapie, oltre ai cosiddetti ‘fattori di resilienza’, che potrebbero proteggere dallo sviluppo di una malattia clinicamente conclamata e rendere potenzialmente non necessarie le terapie in alcuni pazienti. Misteri forse nascosti nelle pieghe del linguaggio, più che nei test sulla memoria. Alla vigilia della Giornata Mondiale ne abbiamo parlato con il professor Camillo Marra, presidente della SinDem e docente di Neurologia e Neuro-Psicologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore della UOSD Clinica della Memoria di Fondazione Policlinico Gemelli.

Sono circa 600 mila le persone con malattia di Alzheimer in Italia e molti, insieme alle loro famiglie vivono appesi alla speranza di una cura. Gli anticorpi monoclonali che ‘ripuliscono’ il cervello dall’amiloide (la proteina che soffoca i neuroni) e che rallentano la progressione dell’Alzheimer, se somministrati nelle fasi precoci di malattia possono produrre una riduzione importante della progressione di malattia. Per ora tuttavia non sono approvati in Europa, anche se sono già disponibili in diversi Paesi del mondo. Sono già sul mercato statunitense Aducanumab e Lecanemab, come anche l’ultimo arrivato, il Donanemab, approvato di recente dall’FDA americana. “Non è facile dare una spiegazione di questo atteggiamento di estrema prudenza da parte dell’EMA, l’ente regolatorio europeo – commenta il professor Camillo Marra, – ma è probabile che i dubbi siano legati alla incertezza sul ‘profiling’ dei pazienti candidati al trattamento. Questi farmaci sono infatti costosi e non privi di effetti indesiderati; sarebbe dunque auspicabile somministrarli solo ai pazienti che ne hanno realmente bisogno e che possano rispondere a queste terapie. Servirebbe insomma definire meglio quando usarli, come usarli e per quanto tempo.”. Ma le informazioni per rispondere a queste domande ancora mancano. “Al momento disponiamo solo di biomarcatori di malattia – spiega il professor Marra -. Ma sapere se si è portatori di una patologia Alzheimer, definita sulla positività a biomarcatori della beta-amiloide o della fosfotau e anche se sono presenti markers di neuro-infiammazione (i biomarcatori in questo caso sono il GFAP o il TREM), racconta solo una parte della storia, perché questo non ci dà informazioni sulla velocità e il tempo in cuiquel determinato ‘paziente’ arriverà allo sviluppo dei primi sintomi cognitivi di demenza di Alzheimer. Un’evenienza che potrebbe verificarsi per alcuni soggetti dopo un anno, ma per altri dopo 20-30 anni, rendendo dunque inutile il ricorso ai farmaci in un paziente 70 enne, ad esempio. Per acquisire queste informazioni bisognerebbe analizzare, accanto ai marcatori di patologia, anche i marcatori di riserva cognitiva e di ‘resilienza’ del singolo paziente”. In altre parole, fermarsi alla sola diagnosi biologica di malattia, non dà tutte le informazioni necessarie se iniziare o meno un trattamento con i nuovi potentissimi farmaci, che possono dare anche effetti indesiderati importanti. “Abbiamo capito – prosegue il professor Marra – che non basta definire i soli criteri diagnostici biologici di malattia; servono anche quelli neuro-fisiologici, neuro-cognitivi e di neuro-imaging che possono aiutare a identificare i fattori di protezione, di resilienza, di riserva cognitiva e cerebrale, quelli che fanno sì che quella patologia in determinati soggetti magari non si manifesterà mai. Ma su questo c’è tanto lavoro da fare”.

La ricerca sui fattori protettivi e di resilienza dell’Alzheimer.

“Finora – spiega il professor Marra – abbiamo definito i pazienti sulla base della patologia e non della loro complessità e dei fattori di protezione. Dobbiamo migliorare il loro ‘profiling’, per capire chi ha il maggior rischio di progredire (e con quale velocità) verso la demenza. Solo così potremo personalizzare il trattamento e individuare i potenziali ‘responder’ alle terapie; questo potrebbe restringere i candidati al trattamento con gli anticorpi anti-amiloide a 25-50.000 persone in Italia”. È necessario dunque ricercare attivamente questi altri fattori. “Abbiamo capito ad esempio – prosegue Marra – che rispondono bene alle terapie i pazienti con livelli di proteina tau nel cervello, che si trovino all’interno di una determinata ‘finestra’ (al di sopra un certo livello, il farmaco non funziona e sotto un certo livello non serve). Ma probabilmente esistono tante altre ‘finestre’ biologiche che potrebbero guidare il trattamento e che al momento non conosciamo. Insomma ci mancano ancora gli strumenti operativi per identificare una persona con Alzheimer in fase precoce, la velocità di progressione della sua malattia e per prevedere se risponderà o meno alle terapie”. Ma qualcosa si sta muovendo. “Alcuni test cognitivi – rivela il professor Marra – potrebbero aiutarci a prevedere chi, tra i tanti affetti da un disturbo cognitivo minimo, si ammalerà tra un anno e chi tra 10 anni, dandoci indicazioni sulla velocità di progressione”. E da questo punto di vista, l’analisi del linguaggio si sta dimostrando molto più efficace della memoria. “Parliamo di un’analisi linguistica computerizzata, che misura il numero delle parole prodotte al minuto, il numero di errori nella produzione linguistica dal punto di vista dei nomi, che studia la frequenza d’uso e la tipicità delle parole prodotte. In questo campo sono in corso molti studi, come quello di recente pubblicato su Neurology da Pietr van der Veere, e anche noi ci stiamo muovendo in questa direzione.  È un campo affascinante, perché un giorno potrebbe consentire di far diagnosi di malattia semplicemente facendoci dire da una persona come cucina la pasta al sugo o facendole raccontare una storia. In questo, l’intelligenza artificiale darà un grande apporto e in futuro un sistema di questo tipo potrà essere utilizzato come mezzo di screening, rapido ed efficace, anche al telefono”.  Non solo il linguaggio ma anche altri fattori potranno identificare i pazienti più protetti dalla progressione. A questo proposito la Fondazione Policlinico Gemelli è capofila della parte clinica del progetto multicentrico europeo COMFORTAGE che analizzerà diversi marcatori di rischio e di protezione della patologia Alzheimer (biologici, EEG, comportamentali e clinici) e l’eventuale protezione preventiva offerta da interventi di attività fisica, sociale, dieta e stimolazione cognitiva.

“Fondamentale – conclude il professor Marra – è anche addestrare gli operatori sanitari a capire la complessità della malattia, riconoscere i fattori di rischio, la malattia biologica ma anche gli indicatori di resilienza e di progressione di malattia. Il lavoro educazionale soprattutto sui giovani medici è molto importante. La SinDem è da sempre impegnata in queste attività e, da quest’anno, ha promosso delle Summer School; la prima edizione si è tenuta presso la Fondazione Policlinico Gemelli dal 20 al 22 Giugno scorso; sono pensate per gli specializzandi di neurologia e geriatria, ma vi possono partecipare anche Medici di Medicina Generale, psicologi e neurologi delle ASL territoriali per una maggiore diffusione delle conoscenze, anche tra i medici più giovani, che gestiranno queste patologie in futuro”.

Maria Rita Montebelli

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