Oncologia del Gemelli: mai ‘chiusa per COVID’. Lavorare in sicurezza è possibile
La pandemia di COVID-19 ha provocato l’interruzione di una serie di servizi sanitari e il rallentamento sostanziale di molti altri. Ma non stato così per l’oncologia del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS.
A distanza di due mesi dall'inizio dell’emergenza COVID e in vista della fase 2 con le relative riaperture graduali, previste a partire dalla prossima settimana per l’Oncologia del Gemelli è tempo di bilanci.
“Con l’esperienza degli ultimi due mesi – commenta il professor Giampaolo Tortora, Ordinario di Oncologia Medica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Direttore della UOC di Oncologia Medica e Direttore del Comprehensive Cancer Center della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – possiamo affermare di essere riusciti a lavorare senza flessioni e senza danni, né per i pazienti, né per il personale sanitario. In questo difficile periodo, chi ha continuato a venire da noi, non ha subito conseguenze relative al COVID. Abbiamo lavorato in totale sicurezza e la fiducia che i pazienti hanno riposto in noi è stata ripagata nei fatti”.
Il timore che una popolazione di pazienti ‘delicata’ come quella oncologica potesse essere particolarmente interessata dal COVID-19, almeno sulla carta c’era. Soprattutto alla luce delle casistiche comunicate da alcuni ospedali del nord, al centro della pandemia, che parlavano di percentuali vicino al 20% di pazienti oncologici contagiati dal coronavirus.
“Ogni centro oncologico – commenta il professor Tortora - ha fatto la sua esperienza. Noi italiani non possiamo certo confrontarci con gli Stati Uniti, dove la sanità è in gran parte garantita da assicurazioni e dove, almeno all’inizio, si pagavano anche i tamponi. Ma è difficile anche fare il raffronto con molti centri europei, che hanno fatto scelte e intrapreso percorsi diversi dai nostri. In generale però tutti pensavamo che i pazienti oncologici fossero più suscettibili all’infezione da coronavirus e dunque che nelle casistiche la loro presenza sarebbe stata importante. In Cina uno studio ha mostrato una prevalenza di pazienti oncologici tra quelli contagiati da COVID-19 pari al doppio rispetto alla popolazione generale. L’analisi retrospettiva fatta in alcuni centri italiani indicava tra i 710 deceduti per COVID una diagnosi di cancro attiva nel 17% dei casi. Ma le esperienze variano per area. E le casistiche di Milano e la Lombardia inevitabilmente sono gravate dal fatto che quello è stato l’epicentro dell’epidemia, quindi i loro numeri potrebbero essere diversi da quelli di altre Regioni italiane”.
Il Gemelli come volumi è uno dei più grandi centri oncologici, forse il più grande d’Italia (lo scorso anno, il Cancer Center ha assistito oltre 50 mila pazienti). Al’inizio dell’emergenza poi, con la creazione del COVID Hospital della Columbus, il Gemelli si è trovato impegnato in prima linea nella lotta alla pandemia del nuovo coronavirus. “La coesistenza di elevati numeri di pazienti oncologici – riflette il professor Tortora - e il fatto di essere stati un ospedale a forte valenza di contrasto dell’emergenza COVID, rappresentava una situazione potenzialmente rischiosa per la convivenza di queste due popolazioni di pazienti”.
Il risultato positivo ottenuto è stato costruito su due pilastri fondamentali: il primo di carattere organizzativo, l’altro probabilmente di natura biologica, sul quale sono attualmente in corso una serie di ricerche.
“Sul fronte organizzativo – spiega il professor Tortora - la UOC di Oncologia Medica ha continuato a lavorare a pieno regime, sia per il Reparto di degenza ordinaria (che è uno dei pochi in Italia a non aver chiuso), sia come Day hospital. A fronte delle abituali 80 chemioterapie che somministriamo ogni giorno, oltre a tutte le visite oncologiche, abbiamo registrato una riduzione di appena 10-15 terapie al giorno, ma solo nelle due settimane del picco dell’epidemia e solo perché i pazienti avevano paura di venire in ospedale. Noi eravamo tutti qui e abbiamo sempre continuato a lavorare, senza riportare contagi neppure tra il personale che è stato più volte sottoposto a tamponi, risultati sempre negativi”.
Il bilancio di questi ultimi due mesi vissuti in trincea dunque è più che positivo per l’oncologia che ha continuato a lavorare mettendo in campo una serie di precauzioni. “Di certo – commenta il professor Tortora – ha molto aiutato il fatto di aver adottato da subito al Gemelli due percorsi paralleli, COVID e non COVID; come anche il fatto di aver adottato immediatamente delle misure di protezione: mascherine sia per il personale che per i pazienti; parenti tutti fuori da reparto e day hospital; un’attività di filtro con il reparto, dove i pazienti venivano ricoverati solo se negativi al test rapido e ai tamponi. Per quelli del day hospital, dopo un pre-triage telefonico a casa, veniva effettuato un nuovo triage al Gemelli, prima di consentire loro l’accesso al DH. Abbiamo inoltre istituito una email che è stata molto utilizzata dai pazienti che con questo mezzo hanno potuto comunicare con i loro medici. Ecco, credo che tutte queste azioni abbiano dato un contributo fondamentale al successo della nostra esperienza”.
Precauzioni per nulla eccessive o esagerate perché i pazienti oncologici sono immunodepressi, dunque ad alto rischio di contagio da coronavirus e di complicanze ed esiti peggiori per la malattia. “In realtà questo non si è verificato in tutti i pazienti. Esaminando le varie casistiche l’unica eccezione è rappresentata dai pazienti con tumore del polmone, che sono spesso anche fumatori e affetti da patologie respiratorie croniche. Sono questi i pazienti più fragili dal punto di vista respiratorio e più a rischio COVID. Per gli altri pazienti oncologici non sembra ad oggi riscontrata un’aumentata suscettibilità all’infezione”.
Un paradosso apparente dunque quello dell’apparente mancata ipersuscettibilità dei pazienti oncologici al COVID-19, che è oggetto di una serie di ricerche condotte e coordinate dall’IRCCS del Policlinico Gemelli. “Noi in particolare – rivela il professor Tortora - stiamo studiando il rapporto tra tipo di patologia oncologica dei pazienti, trattamenti attivi in corso e presenza di una serie di fattori biologici. I risultati non li abbiamo ancora ma abbiamo fatto una serie di ipotesi. E’ possibile ad esempio che alcuni trattamenti (chemioterapici o farmaci a bersaglio molecolare), riducano lo stato infiammatorio locale, bloccando la produzione di citochine. L’immunodepressione dunque, se da una lato potrebbe favorire l’ingresso del virus nell’organismo, protegge tuttavia dai danni dell’iperimmunità, tipici del COVID-19”. Sapremo molto di più quando saranno raccolti i risultati degli studi in corso da noi e in tutto il mondo.
Maria Rita Montebelli