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COVID-19: i rischi per i pazienti con insufficienza renale e le strategie di prevenzione

17 April 2020
Anti COVID19 advice

Il COVID-19 danneggia anche i reni, con meccanismi e conseguenze diverse. Ed è dunque un problema da tenere ben presente sia sul piano clinico, che organizzativo per fronteggiare adeguatamente l’emergenza, visto che è tutt’altro che raro. Uno studio cinese ha evidenziato che metà delle persone ricoverate per COVID-19 presenta proteine o sangue nelle urine, un evidente segno di danno renale.

Il 14-30% dei pazienti con COVID-19 ricoverati in rianimazione a Wuhan e a New York inoltre presentavaun deterioramento della funzione renale tale da richiedere un trattamento emodialitico. E’ il motivo per cui le terapie intensive di New York si sono affrettare a chiedere con urgenza l’arrivo di altro personale specializzato per la dialisi, con in più l’incubodi rimanere sprovvisti dei liquidi per la dialisi.

Abbiamo chiesto al professor Giuseppe Grandaliano, Ordinario di Nefrologia all’Università Cattolica e Direttore della UOC di Nefrologia della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli IRCCS, di fare per noi il punto della situazione.

Professor Giuseppe Grandaliano

Attraverso quali meccanismi il coronavirus danneggia i reni?

“I meccanismi attraverso i quali il virus può danneggiare i reni – spiega il professor Grandaliano -  sono almeno due. In maniera diretta, visto che in studi autoptici è stata dimostrata la presenza del virus a livello renale, sia nelle cellule tubulari che nelle cellule epiteliali del glomerulo (meccanismo di tossicità diretta del virus). Uno studio autoptico condotto a Wuhan, ha dimostrato la presenza di danno renale acuto nei reni di 9 pazienti su 26 e 7 di questi presentavano particelle di coronavirus nei reni. I reni, infatti, sono particolarmente ricchi di recettori ACE2 (fino a 100 volte tanto quelli riscontrati nel tessuto polmonare), che rappresentano la porta d’ingresso del virus nelle cellule.

Poi ci può essere un meccanismo legato alla famosa tempesta citochinica, a questa gravissima reazione infiammatoria sistemica che può avere ripercussioni a livello renale”. Citochine e mediatori dell’infiammazione possono danneggiare il parenchima renale siadirettamente sia indirettamente. Sempre nei casi autoptici ci sono evidenze di infiltrati infiammatori a livello del rene, segni di attivazione della cascata del complemento e un importante danno endoteliale, lesioni queste potenzialmente riconducibili all’azione delle citochine pro-infiammatorie presenti in circolo.Questi mediatori circolanti possono, però, danneggiare il rene anche indirettamente attraverso ipossia, shock e rabdomiolisi (molti pazienti con COVID-19 presentano segni di danno muscolare, testimoniato da un aumento delle CPK nel sangue).

I reni sono anche organi endocrini; un danno ne compromette la capacità di produrre eritropoietina (l’ormone che stimola il midollo osseo a produrre globuli rossi) e vitamina D e altera la regolazione della pressione arteriosa. Ma il virus potrebbe anche annidarsi all’interno del rene e continuare ad essere eliminato attraverso le urine, una volta scomparso da altre parti del corpo.

Insufficienza renale nei pazienti COVID

“Il danno renale nei pazienti COVID – commenta il professor Grandaliano - si può evidenziare in diversi modi. L’incidenza di insufficienza renale acuta oscilla dal 5 al 30% dei pazienti con COVID-19, sia nei reparti di degenza, che più frequentemente in terapia intensiva. Ma questi pazienti possono sviluppare un danno renale meno evidente, come dimostrato da uno studio cinese su oltre 700 pazienti dove oltre il 40% dei pazienti presentava anomalie urinarie, in particolare proteinuria, che è segno di un danno renale.

Una cosa che non sappiamo, per cui sarà importante monitorare nel tempo questi pazienti, anche dopo la dimissione, è quali conseguenze potrà avere questo danno renale acuto legato al virus nel lungo termine. Non sappiamo infatti se questi pazienti avranno problemi renali o meno, in seguito”.

Uno studio cinese prospettico su 701 pazienti con COVID-19 ricoverati presso un grande ospedale di Wuhan ha evidenziato che nel corso del ricovero il 5,1% di loro ha presentato un episodio di insufficienza renale acuta. I soggetti con questa complicanza hanno un rischio di mortalità ospedaliera aumentato in maniera significativa, ma anche un aumento della creatininemia e dell’azotemia o la presenza di proteinuria e di ematuria all’ingresso risultava associato ad un maggior rischio di mortalità.

La presenza di insufficienza renale al momento del ricovero o la comparsa di insufficienza renale acuta sono condizioni che si associano ad un aumento della mortalità durante il ricovero. Questo rischio aumenta con l’età (> 60 anni), negli ipertesi, nei coronaropatici. Un monito dunque ai medici a prestare maggior attenzione ai pazienti con queste caratteristiche, monitorando con attenzione gli indici di funzionalità renale nei soggetti ricoverati per COVID-19.

I pazienti in dialisi

Sono circa 42.000 i pazienti italiani con insufficienza renale terminale che per vivere hanno bisogno che il loro sangue venga letteralmente ‘ripulito’ dalle tossine e dei liquidi in eccesso (che i loro reni non riescono più a smaltire) sottoponendosi ad emodialisi tre volte a settimana per turni di 4 ore. Altri 4.500 italiani fanno dialisi peritoneale a casa. A questi si aggiungono nel nostro Paese altri 27.000 pazienti trapiantati di rene.

Secondo una survey di recente effettuata dalla Società Italiana di Nefrologia, la percentuale di pazienti con COVID in emodialisi è del 2,8% e quella dei pazienti in dialisi peritoneale del 2,4%

I pazienti in trattamento emodialitico sono pazienti ‘delicati’ ed hanno bisogno dunque di grandi attenzioni per evitare di essere contagiati dal coronavirus durante la dialisi.

Quella dei dializzati è infatti una popolazione ad alto rischio infettivo, che spesso presenta anche una serie di comorbidità associate, come diabete e ipertensione. Ma i centri dialisi hanno una grande esperienza e sanno come limitare la diffusione di malattie infettive (dall’epatite B e C, all’HIV). Durante la pandemia di coronavirus è necessario approntare delle unità dialisi dedicate a questi pazienti; fornire mascherine a tutti i pazienti e al personale sanitario, effettuare un triage all’ingresso del centro (misurazione della temperatura corporea) per evitare l’ingresso di pazienti potenzialmente infetti, porre attenzione alle modalità di trasporto dei pazienti da e per il centro dialisi.

I pazienti dializzati in caso di infezione da COVID-19 presentano in genere meno linfopenia (riduzione del numero dei linfociti nel sangue), livelli di citochine infiammatorie più bassi e in genere una forma meno aggressiva degli altri pazienti con COVID.

Sul rischio infezione da coronavirus nei pazienti con insufficienza renale– commenta il professor Grandaliano - non c’è molta letteratura. Più documentato invece il rischionei pazienti in dialisi, che sembra decisamente aumentato. Ma non è chiaro di come questa infezione possa pesare in termini di prognosi sui pazienti in dialisi. Alcuni studi evidenziano però un aumento di mortalità. Un primo report realizzato ad inizio aprile dalla Società Italiana di Nefrologia indica una mortalità del 25,8% dei pazienti in dialisi con COVID-19; dati relativi al Piemonte e Val d’Aosta indicano una letalità del 31,1% tra i maschi e del 4% tra le femmine.E’ bene però ricordare che questi pazienti hanno un altissimo rischio cardiovascolare. Altri lavorisuggeriscono tuttavia che i pazienti dializzati, in caso di COVID-19 possano presentare un’infezione non particolarmente severa, forse perché non sono in grado di sviluppare una reazione infiammatoria così importante come un soggetto normale. Di certo, in questo periodo c’è stata un’attenzione particolare per tutti i pazienti in dialisi e le maggiori società scientifiche (Società italiana di nefrologia, società europea e americana) hanno emanato subito delle linee guida per la sicurezza di questi pazienti, alle quali i centri dialisi si sono immediatamente attenuti. Questo ha contribuito a limitare in maniera significativa l’infezione in questa popolazione di pazienti.

COVID e pazienti trapiantati

I trapiantati di rene (in Italia circa 27.000) spesso sono per tutta la vita in terapia immunosoppressiva fatto questo che li rende più suscettibili a malattie infettive e tumori. Soprattutto nei primi mesi dal trapianto è necessario somministrare immunosoppressori ad alte dosi. La terapia immunosoppressiva rende maggiormente esposti alle infezioni in generale e a questa in particolare questa popolazione di pazienti. “Dati preliminari del Centro Nazionale Trapianti – commenta il professor Grandaliano - ci fanno capire come in questa popolazione di pazienti ci sia un’aumentata incidenza di COVID-19 (sembra almeno doppia rispetto alla popolazione generale). I report del gruppo di Parma e di Brescia, parlano di un aumentato ricovero in terapia intensiva di questi pazienti, mentre un recente articolo pubblicato su Lancet sui trapiantati di fegato suggerisce che in realtà la popolazione dei trapiantati sia in parte protetta dalle conseguenze più importanti dell’infezione, perché la terapia immunosoppressiva potrebbe ridurre quell’abnorme risposta infiammatoria, alla base delle conseguenze più gravi del COVID-19”.

Dai nefrologi la proposta di un trattamento per contenere la ‘tempesta citochinica’

L’FDA ha di recente dato il via libera all’aferesi per il trattamento della tempesta citochinica. “L’aferesi – spiega il professor Grandaliano - consiste nel far passare il sangue del paziente attraversoun apposito filtro, che rimuove le proteine infiammatorie (citochine), la cui concentrazione aumenta in maniera abnorme in corso di infezione e che sarebbero alla base dei gravi danno a carico del polmone e forse anche dei reni indotti dal COVID-19. ‘Scremando’ il sangue di queste proteine (le citochine) potrebbe aiutare a proteggere gli organi dal danno da queste indotto. Il nostro è l’unico centro in Italia il cui comitato etico ha già approvato questo trattamento; siamo pronti dunque a partire”.

Maria Rita Montebelli

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