Diabete e coronavirus, l’uno può influenzare l’andamento dell’altro. Ecco perchè
Gli studi condotti in Italia e all'estero suggeriscono che le persone con diabete non sono più suscettibili all'infezione da nuovo coronavirus rispetto alla popolazione generale; di certo però, una volta contagiate, sono a maggior rischio di complicanze e di mortalità da COVID-19. Un tallone d’Achille delle persone con diabete questo tutt'altro che inedito, visto che anche l’influenza (o altre infezioni) può dar luogo in questi pazienti a forme di maggior gravità e complicarsi. Di qui tra l’altro, l’importanza della vaccinazione anti-influenzale per le persone con diabete.
Una metanalisi di 12 studi relativi a 2.108 pazienti con COVID-19 ha evidenziato che il 10.3% di questi era diabetico, percentuale simile a quella indicata da uno studio condotto di recente dall’Università di Padova che indicava una prevalenza di diabete dell’8,9% nei soggetti con COVID di oltre 65 anni.
“Ad essere interessate dal COVID-19 – spiega Dario Pitocco, Professore associato di Endocrinologia Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore responsabile dell’Unità Operativa Dipartimentale di Diabetologia, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – sono soprattutto le persone con diabete di tipo 2 che, rispetto ai tipo 1 più anziane ed è noto che il virus colpisca soprattutto gli ultra70enni. Inoltre il paziente con diabete di tipo 2 spesso, oltre ad avere problemi di glicemia è anche un iperteso e l’ipertensione configura una categoria di rischio particolarmente elevata in questa pandemia. Al momento, per quanto riguarda le casistiche italiane e internazionali del COVID-19 non sembrano molto rappresentati i pazienti con diabete di tipo 1. E questo perché forse, essendo stati da subito considerati categoria a rischio, questi pazienti potrebbero aver abbracciato le misure di prevenzione , di distanziamento sociale e di protezione più precocemente e in maniera più rigorosa di tanti altri. Un’altra spiegazione è che i pazienti di tipo 1 sono mediamente più giovani e hanno meno patologie associate dei tipo 2. Quindi non è l’iperglicemia di per sé che comporta un esito sfavorevole nel COVID-19, ma probabilmente le altre comorbilità che spesso i tipo 2 presentano. Altri motivi per cui le persone con diabete potrebbero mostrare forme più gravi di COVID-19 sono che hanno a disfunzione del sistema nervoso simpatico, fatto questo che si ripercuote su un’infiammazione ancor più fuori controllo; il diabete infine può compromettere il polmone e quindi, un’infezione a questo livello può risultare più grave in questi soggetti. Il SARS CoV-2 infine sembra attaccare direttamente anche le cellule beta pancreatiche (ricche di recettori ACE2, la porta d’ingresso del virus nelle cellule), deputate alla produzione di insulina e questo potrebbe spiegare le glicemie impazzite osservate soprattutto nei pazienti con infezione da SARS CoV-2 più gravi. Viceversa la clorochina, un farmaco anti-malarico usato come anti-virale in molto pazienti con COVID-19, può determinare delle gravi crisi ipoglicemiche sia nei pazienti diabetici che negli altri”. Insomma, in caso di infezione da coronavirus, le glicemie dei pazienti vanno tenute sotto strettissimo controllo.
Telemedicina e teleconsulto: esperimenti sul campo da adottare anche dopo il ritorno alla normalità?
Il fatto di aver limitato molto gli accessi ambulatoriali in ospedale dei pazienti con diabete in questo periodo ha sdoganato e potenziato molto l’utilizzo della telemedicina. Un ‘esperimento’ sul campo che sta dando risultati molto importanti e che potrebbe essere una delle lezioni della pandemia da COVID-19 da ‘esportare’ in futuro nella gestione ordinaria di questa e di altre patologie croniche; sempre che adeguatamente sostenuta da forme strutturate di teleconsulto e di adeguata remunerazione.
“Tra i pregi della telemedicina - afferma il professor Pitocco – c’è quello di permettere di monitorare frequente il paziente; ci sono infatti dei sistemi (glucosensori e relative piattaforme informatiche) che consentono lo scarico dei dati, cioè delle misurazioni delle glicemie del paziente, che il medico può visionare da remoto, dal computer del suo ambulatorio. Il limite sta nel fatto che la glicemia non è solo un numero, ma l’espressione di un fenomeno biologico e come tale va interpretato per capire cosa c’è dietro un valore ‘sbagliato’, sia che si tratti di una glicemia troppo elevata o di un’ipoglicemia. Problemi questi che potrebbero essere superati da un vero e proprio teleconsulto e dall’assegnazione di un DRG appropriato. I vantaggi di un sistema del genere, anche in tempi ‘normali’ potrebbero essere di decongestionare liste d’attesa e ambulatori, laddove oggi in una sola mattina capita di fare dalle 80 alle 100 visite di controllo. I teleconsulti alleggerirebbero di molto il problema dell’accesso in ospedale, degli spazi, della sala d’attesa, della turnistica, del sovraffollamento. Il diabete è una patologia che interessa quasi 4 milioni di italiani.
Alcuni farmaci anti-diabete proteggono dall’infezione da coronavirus?
Il DPP-4 (dipeptidil peptidasi 4) è il recettore principale nell’infezione da MERS-CoV; un recente studio americano ha suggerito dunque che alcuni farmaci usati nel trattamento del diabete di tipo 2 DDP-4 inibitori potrebbero avere dunque un ruolo nel contrastare l’infezione, assumendo che il DDP-4 potrebbe essere una porta d’ingresso anche per il SARS CoV-2. Un fatto questo che resta ancora tutto da dimostrare.
“Dati preliminari che sembravano ipotizzare un possibile utilizzo dei DPP-4 inibitori (una classe di farmaci anti-diabete di tipo 2 in compresse) per attenuare o prevenire addirittura l’infezione da SARS CoV-2 – afferma il professor Pitocco - non sembrano trovare una conferma. Per vari motivi, riassunti in una comunicazione che abbiamo inviato a Diabetes Research Clinical Practice.
In primo luogo manca qualunque dimostrazione, anche in vitro o sperimentale, del possibile legame del SARS CoV-2 ai recettori DDP-4. Questi recettori sono presenti nel nostro organismo sia espressi sulla superficie delle cellule, che in forma ‘libera’ nel sangue circolante. Inoltre, durante l’epidemia da MERS, causata da un altro coronavirus, il livello di DPP-4 circolante sembrava svolgere addirittura un ruolo protettivo contro l’infezione; quindi andarlo ad inibire con un farmaco, potrebbe ottenere il risultato opposto. Allo stesso tempo, sia il coronavirus della MERS che l’HIV sembrano avere l’effetto di ridurre il numero dei recettori DDP-4 legati alla membrana cellulare. Infine non ci sarebbe un rapporto direttamente proporzionale tra numero dei recettore ACE2 (la porta d’ingresso del SAR S CoV-2) espressi sulla superficie cellulare e l’espressione clinica della malattia. Il polmone, che rappresenta il bersaglio principale del virus e quello dove la malattia fa più danni – ricorda il professor Pitocco - è il ventiduesimo come numero di recettori ACE2 nel nostro organismo. In altre parole, non esiste una correlazione diretta tra numero di recettori ACE2 a livello tessutale e gravità della malattia”.
Maria Rita Montebelli