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COVID-19: le caratteristiche degli italiani ricoverati in rianimazione, raccontate su JAMA

9 April 2020
Anti COVID19 advice

Il paziente ‘medio’ con COVID, ricoverato in rianimazione in Italia è un uomo di 63 anni, iperteso e con altri fattori di rischio cardiovascolari (colesterolo, diabete). E quella da coronavirus è un’infezione seria, che può dare gravi complicanze, negli anziani ma anche nei giovani. A confermarlo sono le statistiche. Un articolo su JAMA , quello con la più vasta casistica di pazienti COVID ricoverati in rianimazione pubblicato finora, traccia per la prima volta l’identikit degli italiani che in queste settimane sono finiti a lottare tra la vita e la morte col virus,nelle rianimazioni del Nord. E a raccontare queste storie, attraverso i numeri,  sono i rianimatori della Lombardia, una regione che rappresenta una triste anomalia epidemiologica, anche all’interno dei confini nazionali. Sono 1.591 i pazienti analizzati nell’articolo, tutti ricoverati nella rete COVID-19 delle rianimazioni lombarde (72 gli ospedali che fanno parte di questo network, coordinati dal centro ICU della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano). Un diario di bordo in mezzo allo tsunami, scritto tra il 20 febbraio e il 25 marzo. Una manciata di giorni fa.

L’identikit dei ricoverati nelle rianimazioni lombarde

Si parla tanto di grandi anziani, di questi alberi ‘forti e sacri’ (come scrive la figlia di una paziente su Twitter) caduti sotto la scure del coronavirus. Ma lo studio pubblicato su Jamaracconta anche un’altra storia. L’età media dei ricoverati è di 63 anni (56 di loro avevano tra i 21 e i 40 anni, altri 16 avevano un’età compresa tra i 14 e i 19 anni). L’età – commentano gli autori dello studio - almeno per il momento non rappresenta dunque un fattore di rischio significativo per il ricovero in rianimazione. Si conferma, anche nell’anagrafica delle UTI (Unità di Terapia Intensiva), la fragilità del cosiddetto sesso forte: i maschi rappresentano l’82% dei pazienti trattati in rianimazione.

Il mistero dell’ipertensione

Il 68% dei ricoverati presentava almeno un’altra patologia e oltre la metà di loro era affetto da  ipertensione arteriosa. Le cosiddette ‘comorbidità’, cioè la presenza contemporanea di altre malattie, in particolare di patologie croniche, si conferma dunque un importante fattore di rischio e un monito ad essere ancor più prudenti nell’adottare misure di isolamento sociale e anti-COVID-19 in generale, per le persone portatrici di queste patologie. La metà dei pazienti ricoverati era iperteso, il 21% cardiopatico, il 18% aveva il colesterolo alto, il 17% il diabete.

Intubazione e pronazione per far respirare i malati

La stragrande maggioranza degli italiani è arrivata in rianimazione a causa di un’insufficienza respiratoria acuta ed ha avutodunque bisogno di supporto respiratorio (il 99%): nell’88% dei casi attraverso una ventilazione meccanica (sono stati cioèl’intubati),mentrel’11% di questi pazienti ha ricevuto assistenza respiratoria attraverso una metodica di ventilazione non invasiva (come i ‘caschi’ per  la CPAP); solo l’1% ha ricevuto l’ossigeno attraverso  una maschera Venturi.Dati questi in contrasto con quelli che arrivano da Wuhan dove, nelle varie casistiche, i pazienti intubati nelle rianimazioni sono stati ‘solo’ il 30-47%. Forse – scrivono gli autori – l’altissima percentuale dei pazienti intubati nelle rianimazioni italiane è dovuto alla gravità dell’ipossia (cioè alle bassissima ossigenazione rilevata nel sangue di questi pazienti). Ma la percentuale potrebbe essere falsata dal fatto che in Italia, i pazienti che potevano essere gestiti con ventilazione non invasiva, venivano trattati in reparti di sub-intensiva, quindi fuori dalle rianimazioni, riservate ai pazienti più gravi.Il 27% è stato ‘pronato’ cioè messo a pancia in giù per consentire ai polmoni devastati dal virus di espandersi meglio) e nell’1% dei casi è stato necessario ricorrere alla cosiddetta ECMO, una macchina che ossigena il sangue fuori dal corpo.

Quei ricoveri senza fine. E un paziente su 4 non ce la fa

Gli autori dello studio su JAMA segnalano che, a di 5 settimane dal ricovero, il 58% dei pazienti è ancora in rianimazione, il 16% è stato trasferito in un altro reparto e il 26% è deceduto. A cadere sono in genere i più anziani

Gli enormi (e inediti) problemi organizzativi posti dalla pandemia di coronavirus

Il COVID-19 si conferma dunque una malattia seria che necessita di un supporto organizzativo robusto per far fronte ai numeri e alla gravità dei pazienti. Gli autori dello studio stimano che un 10% circa dei pazienti positivi potrebbe aver bisogno di un trattamento intensivo. Il numero dei pazienti critici, da gestire in rianimazione, nell’ambito dell’epidemia di COVID-19 è sostanziale e i tempi della degenza come visto sono lunghissimi, di diverse settimane. E’ fondamentale dunque pianificare e approntare un numero sufficiente di letti di terapia intensiva per fronteggiare adeguatamente l’emergenza, e non farsi trovare impreparati.Una lezione purtroppo imparata sul campo negli ospedali Lombardi, che deve essere di monito per tutti gli altri.

L’esperienza della rianimazione del Gemelli

  • Prof. Massimo Antonelli
    Professor Massimo Antonelli

Il professor Massimo Antonelli è uno dei protagonisti dell’emergenza COVID-19. Direttore dell’Istituto di Anestesia e rianimazione dell’Università Cattolica e del Polo Emergenza (DEA) e Medicina interna della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e già presidente della European Society of Intensive Care Medicine (Esicm), è tra gli autori dell’articolo pubblicato su Jama.

Le caratteristiche dei pazienti con COVID-19 ricoverati al Gemelli simili a quelle dei pazienti lombardi

“Le caratteristiche dei pazienti con COVID-19 ricoverati al Gemelli – afferma il professor Antonelli - sono sovrapponibili a quelle descritte nei pazienti lombardi, sia in termini d’età che di necessità di ricorso alla ventilazione meccanica, invasiva e non, che in termini di caratteristiche di fattori di rischio. Anche la maggior parte dei nostri pazienti era infatti ipertesa e con problematiche cardiovascolari. Nella nostra popolazione abbiamo inoltre osservato, con una frequenza elevata, obesità (pazienti con indice di massa corporea superiore a 29-30) associata ai fattori cardiovascolari. È tuttavia tutto da dimostrare che l’obesità rappresenti un fattore di rischio per il COVID-19, per ora possiamo solo parlare di associazione”.

Le ‘lezioni’ imparate sul campo

E’ necessario essere preparati. I colleghi della Lombardia purtroppo non hanno potuto adottare questa strategia perché si sono trovati una gran quantità di malati con gravi problemi respiratori da dover assistere tutti insieme. Al contrario, noi abbiamo avuto un po’ più di tempo e ci siamo potuti organizzare allocando strutture specifiche (i COVID Hospital), come suggerito dal Decreto Ministeriale. Nel Lazio, oltre allo Spallanzani, abbiamo riconvertito una struttura sanitaria, la Columbus, dedicandola a terapia intensiva, sub-intensiva e degenza per i malati COVID. Globalmente il numero dei posti letto di rianimazione che andrà a regime è di 60, ma nel frattempo, durante la realizzazione del Columbus COVID Hospital, abbiamo utilizzato per i pazienti COVID anche le varie tipologie di terapie intensive del Gemelli, così da realizzare un isolamento di coorte per i pazienti COVID.

Le caratteristiche dei pazienti COVID che arrivano in rianimazione

I pazienti con COVID-19 possono aggravarsi rapidamente; quando cominciano a manifestare sintomi respiratori più importanti quali dispnea, aumento della frequenza respiratoria, riduzione della pressione parziale di ossigeno del sangue, diventano tutti candidati a ricevere non solo l’ossigeno-terapia ma anche un ausilio di ventilazione non invasivo o ad essere intubati e ventilati meccanicamente.

Finora al Gemelli sono stati assistiti in rianimazione circa 140 pazienti COVID, transitati nelle varie terapie intensive. La mortalità anche tra i nostri ricoverati in terapia intensiva (come quella della coorte lombarda) si aggira intorno al 20%. La maggior parte dei pazienti deceduti aveva varie comorbidità ed erano anziani, dai 70 ai 90 e oltre.

Maria Rita Montebelli

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