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Storie di bisturi: il Gemelli nelle sale operatorie del mondo

12 October 2017
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Il Charity Work Program (CWP) è una programma di volontariato estivo promosso dal CeSI (Centro di Ateneo per la Solidarietà Internazionale, diretto dal prof. Roberto Cauda) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ogni anno decine di studenti partono a spese dell’UCSC verso destinazioni di frontiera per dare un contributo alle popolazioni locali in difficoltà. Agli studenti della facoltà di Medicina e Chirurgia sono riservate le destinazioni in ospedali africani dove svolgono un lavoro di collaborazione con i medici locali e volontari provenienti dall’Italia. 

La scorsa estate Gabriele Giuliano, appena laureato in Medicina presso l’Università Cattolica, ora tirocinante post-lauream presso il Policlinico Universitario Gemelli, è stato selezionato dal CeSI per la destinazione Tanzania dove ha trascorso quattro settimane presso il Consolata Hospital Ikonda, insieme ad un altro studente, Stefano Pagano, e ad altri volontari italiani. Il Consolata è un ospedale fondato nel villaggio di Ikonda dai padri missionari della Consolata; oggi è uno degli ospedali più grandi ed efficienti della Tanzania che risponde alle esigenze sanitarie di quasi metà della popolazione tanzaniana, permettendo l’accesso alle cure a quei cittadini che non possono permettersi di sostenere né il viaggio verso Dar Es Salaam né tantomeno le spese richieste dalle strutture sanitarie ivi presenti.

(rubrica a cura di Luca Revelli)

 

Il Mal d’Africa non guarisce 

di Gabriele Giuliano


A metà Agosto, con una valigia piena di pregiudizi e preconcetti sull’Africa mi sono imbarcato da Fiumicino alla volta di Ikonda, passando per Addis Abeba, Dar Es Salaam e Mbeya: un viaggio di circa 24 ore.

Arrivati all’aeroporto di Mbeya, ad aspettarci dall’altra parte c’è Isostenes, un autista del Consolata Hospital Ikonda.

L’ultima parte del viaggio è quella più faticosa: quattro ore in fuoristrada su un percorso buio e sterrato attraverso il quale ci inoltriamo nell’Africa vera, quella dei documentari in televisione. Appena arrivati ad Ikonda, abbiamo giusto le energie per mangiare qualcosa e crollare a letto.

Ad Ikonda non c’è tempo per le presentazioni ufficiali o per ambientarsi gradualmente, così il giorno dopo non ancora perfettamente consci di quello che ci aspettava, veniamo catapultati al lavoro in ospedale, e io scelgo di iniziare l’esperienza al reparto di Medicina Interna uomini.

Giunto in reparto scopro che per i circa cinquanta pazienti ricoverati c’è solo un medico strutturato, Michael, trentenne che mi accoglie festoso e contento di avere finalmente un collaboratore. Il primo giro in reparto è estenuante, in cinque ore riusciamo a vedere tutti i pazienti, ma riesco a capire ben poco dal momento che la popolazione locale parla rigorosamente solo lo swahili, ma per fortuna Michael mi traduce tutto in inglese.

L’ospedale di Ikonda è una delle strutture più all’avanguardia della sanità tanzaniana, ciononostante non è stato per niente facile, per me neolaureato con il mio sapere fatto di schemi diagnostici-terapeutici più o meno rigidi e costruiti ragionando in base alle risorse della sanità occidentale, abituarmi a quel particolare modo di intendere la medicina e seguire i protocolli di cura locali. Da aspirante infettivologo, per esempio, non potevo accettare di non poter impostare una terapia antimicrobica eziologica data l’impossibilità di eseguire colture microbiologiche, antibiogrammi e altre cose simili.

Ma in questi casi per fortuna è il fattore tempo che aiuta, e giorno dopo giorno grazie soprattutto ai suggerimenti dei medici volontari italiani presenti durante quei giorni ad Ikonda, intuisco che forse sarebbe stato più utile abbandonare la rigidità del mio modus operandi e reinventarmi sull’esempio dei medici locali e sulla base delle poche risorse disponibili.

Il risultato è stato un ottimo lavoro di collaborazione con il dottor Michael che mi ha reso sempre partecipe e corresponsabile di ogni caso clinico, mi ha permesso di eseguire procedure invasive e non, e perfino di decidere alcuni trattamenti.

Dopo un’intera settimana passata in reparto, finalmente arrivava il fine settimana, dedicato alle escursioni in zona. Con gli altri medici e studenti presenti, accompagnati dai padri missionari della Consolata, abbiamo scalato montagne che ci hanno regalato panorami mozzafiato e abbiamo vissuto avventure indimenticabili all’interno della natura più selvaggia, florida e incontaminata.

Ad Ikonda c’era così tanto da fare che i giorni passavano davvero in fretta, e subito arrivava la sera, quando terminata l’attività nei reparti, ci ritrovavamo con gli altri volontari per trascorrere insieme le ultime ore della giornata. Una delle cose che ricorderò con immenso piacere erano proprio questi momenti in cui durante “l’ora magica africana” che in Tanzania andava dalle 18 alle 19 ci sedevamo insieme ad ammirare il tramonto offerto dal calare del sole che dipingeva il cielo dell’emisfero australe di una sinestesia di colori che neanche il più stimato linguista saprebbe descrivere con le parole e che neanche la più tecnologica delle fotocamere saprebbe catturare. Il tramonto dell’Africa è un’esperienza che va vissuta personalmente perché non è un semplice gioco cromatico sensazionale e repentino, ma è un coinvolgersi di stati d’animo e sentimenti che corrono insieme agli ultimi raggi di sole verso la notte.

Si parla spesso di Mal d’Africa, dal canto mio posso affermare che l’esperienza che si fa non finisce il giorno in cui lasci quel continente ma che l’Africa te la porti nel cuore e da lì dentro continua a lavorarti e a insegnarti tanto, ovunque tu vada, impressa fervidamente nella memoria imperitura, perché in fin dei conti chi va in Africa non la lascia più.

 

A Ikonda fra ortopedici e sciamani

di Stefano Pagano

Ikonda è un remoto paesino della Tanzania, costituito da piccoli villaggi che nel corso degli anni – a partire dal 1961 – ha conosciuto un’importante espansione. La ragione di tale sviluppo è da ricercare nel Consolata Ikonda Hospital che, con i suoi oltre 300 posti letto, ospita numerosi reparti tra medicina interna, chirurgia generale, ginecologia, ortopedia, pediatria e malattie infettive.

Il costo accessibile e l’offerta di un servizio di altissimo livello, hanno trasformato un piccolo ospedale missionario in un punto di riferimento per l’intero stato: ogni giorno numerosi autobus provenienti da ogni parte della Tanzania trasportano qui decine di nuovi pazienti.

Quello di Ikonda è un contesto caratterizzato da una profonda dicotomia: da un lato problematico per la miseria che colpisce la popolazione locale e le patologie complesse, da noi ormai rare, con cui hanno a che fare i medici locali e dall’altro all’avanguardia grazie alle risorse economiche e tecnologiche, con cui quest’ospedale guidato da Padre Sandro porta avanti la missione di “Faith Hospital”. Nonostante questa condizione di contrasto, il mese trascorso da volontario del Charity Work Program è stato fondamentale per la mia crescita non solo professionale, ma anche e soprattutto umana.

Interessato all’ortopedia, ho scelto di seguire il dott. Rolando Sancassani, medico volontario italiano, e l’equipe medica locale in reparto ed in sala operatoria. La possibilità di assistere ad un gran numero di interventi, anche spesso complessi, in un ambiente comunque più rilassato del nostro, mi ha permesso di apprendere numerosissime nuove nozioni e procedure dal semplice lavaggio chirurgico alle varie tecniche di sutura. Inoltre grazie alla tenacia dell’infermiere Dixon ho fatto grandi progressi con il Kiswahili, la lingua ufficiale parlata in Tanzania.

Ogni giorno è stato ricco di nuove esperienze e nuovi casi: dai semplici gessi e interventi di riduzione delle fratture, alla plastica a zeta e skin-graft per le ustioni, alle craniotomie per i traumi cranici. L’ampia casistica e la ristrettezza dei mezzi mi ha permesso di assistere a procedure diverse e innovative, in una realtà molto diversa dalla nostra. Spesso molti pazienti arrivavano ad operarsi a distanza di mesi dal trauma, non tanto per l’impossibilità di permettersi l’intervento , bensì dalla pratica di fare riferimento allo sciamano del villaggio.

Questa figura, equiparabile in un certo senso al nostro medico di base, provvede con piccoli tagli sulla zona lesa alla guarigione della stessa; ovviamente sopportando a lungo un braccio o una gamba rotta, finalmente gli infermi si rivolgono alla struttura ospedaliera.

Ovviamente quella centro-africana è una società completamente diversa dalla nostra, ma non per questo meno interessante. Nonostante la popolazione non disponga nemmeno dei beni di prima necessità (la corrente elettrica è giunta solo nel dicembre del 2014 e l’acqua corrente è un lusso di pochi), ognuno è sempre gioioso, riconoscente e pieno di vita.  La vicinanza al sofferente, è stato, per me, un momento di grande crescita, facendomi apprezzare e adorare ancor di più il percorso di studi che ho scelto. Ho anche appreso molto dal modo di vivere più semplice, ma anche più intenso, scandito dal godersi ogni piccolo momento e ogni piccola cosa di cui si dispone. Non posso far altro, quindi, che augurare a chiunque , studente o medico, di vivere almeno una volta l’esperienza da volontario, perché se è vero che il desiderio è quello di aiutare, alla fine si ritorna sempre più arricchiti, e ,infatti, io non vedo l’ora di tornare in Africa.

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